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Che tragedia la coppia Santamaria-Pasolini

MMai fidarsi troppo dei divi. Né di ieri, né di oggi. Domenica sera, al Festival di Spoleto, i divi erano addirittura due, e al prezzo di uno: La verità. «Melologo per voce recitante ed ensemble strumentale» - proponeva infatti i versi del sempre amatissimo Pier Paolo Pasolini, letti dall’oggi popolarissimo attore Claudio Santamaria (L’ultimo bacio, Romanzo criminale). Il trionfo, insomma, pareva scontato; e in mille circa gremivano il Teatro Romano pronti a godersi questa congiunzione di astri. Risultato: neanche cinque minuti dopo l’inizio, già i primi spettatori battevano in ritirata; l’emorragia proseguiva ininterrotta per tutti i settantacinque, interminabili minuti successivi, e alla fine, a far contrasto con pochi applausi, troppo insistiti per non parere compiacenti, la platea offriva larghi spazi vuoti d’imprevedibile dissenso.
Come hanno potuto, due divi uniti insieme, fallire in un colpo solo? Primo: fare spettacolo con la poesia è difficilissimo. Ci riuscirono, sempre a Spoleto, solo miti del calibro di Neruda, Quasimodo, Evtuschenko, Pound, e Pasolini stesso; ma tutti insieme, e tutti in carne ed ossa. Secondo: di Pasolini il grande pubblico conosce solo il mito positivo, e distorto, fornito dalla cultura imperante che l’ha santificato; ma certo non ha letto le sue poesie, e domenica sera non s’aspettava di trovarselo davanti crudo, straziato e angosciante come quei suoi magnifici, ma terribili, versi lo descrivono. Terzo: è dibattutissima questione se la poesia debba essere detta o recitata. Di sicuro mai dovrebbe essere semplicemente letta come s’è limitato a fare Claudio Santamaria; e comunque mai con l’intonazione piatta e monocorde con cui l’attore ha finito per annullare quasi, in un unico, pesantissimo pastone, la variegatissima, tragica bellezza di quei versi.
A rendere ancor più deprimente la serata, infine, provvedeva proprio quella musica che, secondo le intenzioni del melologo, avrebbe dovuto contribuire ad elevare lo spirito dei presenti.

Un sottofondo composto da Flavio Emilio Scogna per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte, troppo invadente e in primo piano ma, in compenso, plumbeo e sconfortante almeno quanto il clima che, nel frattempo, s’era impadronito dei presenti. I quali, alla fine, sono sciamati ammutoliti. Scuotendo la testa.

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