Chi gioca coi numeri dei reati romeni

Stupri, violenze sessuali, prove di quotidiana barbarie che si compiono in ogni angolo d'Italia, con la sofferenza indicibile delle vittime e il nostro sgomento. Chi commette questi crimini? Ci soccorre il Viminale, che non è un centrale di polizia occhiuta e semisegreta, ma una direzione di pubblica sicurezza al servizio dei cittadini e aperta alle legittime aspirazioni di specifiche conoscenze da parte degli italiani.

Dunque, nel 2008 le violenze sessuali sono diminuite dell’8,4 per cento; nel triennio 2006-2008 queste sono state commesse nel 60,9 per cento da italiani, per il 7,8 da romeni e per il 6,3 per cento da marocchini. Sembra già di sentire i fautori della politica delle «porte aperte». Vedete, ve la prendete sempre con gli immigrati, ma la parte rilevante degli stupratori sono fratelli nostri, parlano la nostra lingua e mangiano spaghetti; non sarebbe ora di mettere la sordina a certe campagne che attribuiscono all’immigrazione l’aumento di certe forme di criminalità?

Calma, calma. Le cifre non sono manipolabili a piacere. I romeni presenti nel nostro Paese sono circa un milione, pari cioè all’1,5 per cento, più o meno, della popolazione. Perché questa minoranza esprime una propensione così alta (7,8%) a un certo tipo di reati? Lo stesso discorso vale per i marocchini, che sono anche di meno rispetto ai romeni. Non è un discorso razzistico, ma culturale: a Sud e Est dell’Italia ci sono Paesi in cui la considerazione e il rispetto per le donne sono più bassi che da noi, dove del resto abbiamo ancora tanto da imparare. È un dato di fatto, non un’opinione e l’integrazione che tutti auspicano dovrebbe comprendere la crescente condivisione di comportamenti e valori.

Ma a dispetto delle cifre, le autorità romene continuano a riversare sull’Italia accuse di xenofobia. E tuttavia precisano che il 40 per cento dei ricercati romeni colpiti da mandato di cattura valido a livello internazionale si trovano presumibilmente in Italia. Il nostro governo ha chiesto a Bucarest di segnalare alle autorità italiana di pubblica sicurezza i romeni con precedenti penali che si apprestano ad emigrare nel nostro Paese, ma il ministro degli Esteri romeno ha risposto che non intende ostacolare in alcun modo la libertà di movimento dei suoi connazionali. Il discorso è chiaro.

Sul finire dell’Ottocento le autorità siciliane favorivano in ogni modo l’emigrazione dei cattivi soggetti e dei mafiosi, arrivando al punto di rilasciare certificati penali vergini a indicibili pezzi di malacarne. Quando il celebre poliziotto italoamericano Joseph Petrosino, nel 1912, intuì il giochetto e si recò in Sicilia per recuperare i certificati penali di certi mafiosi (che avrebbe voluto fare espellere come indesiderabili e falsari) fu ucciso in piazza Marina a Palermo.
L’impressione è che le autorità romene facciano lo stesso gioco di quelle siciliane di tanto tempo fa. I nostri mafiosi andavano con piacere negli Stati uniti perché venivano a contatto con un società aperta, più libera della nostra di quel tempo, una società in cui «l’habeas corpus» e un politico di origine irlandese potevano battere la polizia.

Ebbene, oggi i romeni dediti al malaffare vengono in Italia con lo stesso spirito e la stessa speranza.

Contano sulle maglie larghe di un Paese per troppi anni sbracato, su un sistema giudiziario inefficiente, sulle lentezze e l’incomunicabilità degli apparati amministrativi e burocratici. Eugene Terteleac, presidente dei romeni in Italia, ha detto: «Da voi c'è poca severità, siete una calamita per i delinquenti». Riflettiamo.

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