Roma È ampia la schiera di quelli che, narici sensibili, sentito profumo d’intesa con Berlusconi ne denunciano il tanfo. Per ragioni diverse vorrebbero non imboccare il sentiero delle riforme condivise, neppure turandosi il naso, Veltroni e i veltroniani, Casini e i casinisti, Di Pietro e i dipietristi, Repubblica e i republicones.
Il dialogo diventa connivenza persino per Walter-ego, che proprio in nome del dialogo pensava di aver dato il via a un new deal del Pd. Appena messosi al volante dei democratici, a parole aveva ingranato la marcia dell’antiberlusconismo soft: sediamoci a un tavolo, basta delegittimarci, diventiamo un Paese normale, rispettiamoci a vicenda, diamo una rasoiata a cespugli e anni di odio e via col vogliamoci meglio. Peccato che poi il fiume carsico dell’antiberlusconismo heavy sia poi riemerso alla grande con il patto con il virulento Di Pietro. E la sinistra è tornata sulle barricate a sparacchiare su Silvio, di nuovo nemico e non più avversario. Ma Veltroni e soci hanno un motivo in più, tutto interno, per sigillare qualsiasi spiraglio di accordo tra maggioranza e opposizione: fare un dispetto ai nemici di sempre, D’Alema e i dalemiani, oggi padroni di casa del Pd. Se infatti Bersani riuscisse laddove Veltroni e Franceschini hanno fallito, contribuire a fare le riforme, per questi ultimi sarebbe uno smacco difficile da digerire.
Gelido verso ogni tipo di intesa Pd-Pdl pure Pier Ferdinando Casini, che dalla rissa tra i poli ha sempre avuto tutto da guadagnarci: si presenta come moderato, fa l’ago della bilancia, intercetta gli scontenti dei due campi e con la politica dei due forni alza la posta per ogni alleanza in periferia. Se i due Ber (Berlusconi & Bersani) si sedessero al tavolo delle riforme, Pier conterebbe come il due di briscola e il suo potere contrattuale scenderebbe a livelli microscopici. Nessun applauso alla concertazione neppure per chi, come Di Pietro, canta nel coro d’odio verso Silvio. L’Italia dei «livori» in fondo deve la propria fortuna politica all’aver intercettato e fatto da megafono all’opposizione più radicale, barricadiera, intransigente, invasata e giustizialista. E se un’ipotesi di «inciucio» potrebbe tradursi in una manciata di consensi in più da parte dei democratici pasdaran del «nessun patto col nemico», è vero anche che per Di Pietro potrebbero aprirsi le porte del ghetto. In una sorta di conventio ad excludendum, l’escluso sarebbe Tonino: in quarantena, relegato ai margini del dibattito politico, considerato come illiberale e pittoresca forza d’opposizione, farebbe la fine del patetico e urlante mister no.
E poi la debenedettiana Repubblica, vero e proprio regista d’opposizione, che fino a oggi ha dettato la linea a Pd e dintorni. Un accordo sconfesserebbe fini e metodi di largo Fochetti perché dimostrerebbe che col «caimano», «mafioso», «puttaniere», «dittatore» si può parlare di bene dell’Italia.
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