L’amico milanista che sta al mio fianco si agita, sbraita, insulta, fischia: è tra coloro che dagli spalti di San Siro contestano la squadra per la sconfitta con l’Atalanta. Sono interista e quindi assisto alla protesta collettiva con distacco, anzi con un certo piacere. Ma non posso fare a meno di pensare: se anche i milanisti sono incazzati, vuol dire che il tifo è davvero una malattia la cui cura deve essere inserita tra le urgenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Non sto parlando degli ultrà, di quelli che si accoltellano o che fanno a cazzotti nelle stazioni degli autogrill. No, sto parlando del tifoso semplice, del non-violento che assiste dai distinti o da Sky, del padre di famiglia che giustamente apre la mattinata leggendo la Gazzetta. Anche costoro sono malati, vittime di una passione masochista che dà una sola certezza: i dolori sono sempre superiori ai piaceri. Anche costoro andrebbero rieducati, ci vorrebbero dei Muccioli per tenerli chiusi in comunità senza televisione, o cliniche come quelle che disintossicano dal troppo sesso.
Il tifo fa male, più del fumo e più del troppo cibo, perché il calcio non ti fa mai contento, mai sazio. La prova, dicevo, è lo stato d’animo attuale dei milanisti. Nessuna squadra al mondo ha vinto di più negli ultimi vent’anni. Sono freschi di una Champions vinta con le unghie e con i denti per sopperire a un’inferiorità atletica e spesso tecnica, insomma hanno vinto da eroi proprio perché sono vecchi, e il pubblico che fa?, li insulta giusto così: «vecchi, siete vecchi».
Non è che siano incontentabili i milanisti. Sono incontentabili tutti i tifosi, nell’improbabilissima ipotesi che tra qualche anno saremo noi interisti ad aver fatto indigestione di scudetti e di coppe, al primo pareggio interno con la Fiorentina cominceremmo a pensare alla lotta armata. È il tifo, il tifo in genere che ti avvelena la vita. Le vittorie danno una gioia effimera, basta una multa per sosta vietata all’uscita dello stadio per farti riprecipitare nello squallore della cupa vita quotidiana. Ieri discutevo con un milanista che contestava queste mie tesi, all’improvviso gli ho detto: ma quanti scudetti avete vinto? Boh, diciassette o diciotto, mi ha risposto: non si ricordava neanche più. E sì che è un super-tifoso. Ricordo quando nel 2000 la Lazio era in corsa per lo scudetto con la Juventus. Frequentavo in quel periodo Franco Cordelli, critico letterario, uomo di cultura alta, che però mi confessava senza falsi pudori di essere totalmente preso, nei suoi pensieri, dal testa a testa finale. Andammo a pranzo il giorno dopo la trionfale vittoria della Lazio. Mi confidò: «Ero allo stadio. Al fischio finale ero pazzo di gioia. Dopo dieci minuti mi sono chiesto: tutto qui?».
Sì, tutto lì. Lo scudetto nerazzurro dell’anno scorso era atteso da vent’anni. Ho festeggiato un po’ il pomeriggio, ma verso sera avevo già le balle girate pensando che il Milan avrebbe vinto la Champions. Il ricordo della sconfitta invece è indelebile. Che giorno abbiamo vinto il campionato l’anno scorso? Boh, mi pare il 27 aprile, ma chi se lo ricorda. Tutti invece abbiamo ben stampato nel cervello il 5 maggio, un giorno che ha segnato anzi rovinato la vita mia e quella dei miei bambini, erano lì con la maglietta e la bandiera a vedere Ronaldo (altra testimonianza vivente di quanto abbia un senso affezionarsi a un calciatore) che piangeva disperato.
Ecco, forse è questo l’unico aspetto positivo del tifo. Ti fa percepire appunto l’assenza di un senso. Se anche i milanisti piangono, dev’essere vero il titolo di quel noir di Léo Malet: «La vita è uno schifo».
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