Il chirurgo che ridona il sorriso a chi ha perso davvero la faccia

All’improvviso i dentini da latte di Clarissa si ritirarono fino quasi a scomparire nelle gengive. I genitori pensarono che fosse colpa d’una brutta caduta. Dopo qualche tempo la bimba cominciò a perderli, senza che venissero sostituiti da quelli definitivi. Per un anno e mezzo papà e mamma la portarono avanti e indietro da Monreale a Palermo per farla curare. «Con la pubertà tutto andrà a posto», li rassicuravano i medici. Ma intanto la figlioletta aveva i punti di sutura in bocca, non riusciva più a mangiare, soffriva molto. Fu allora deciso un prelievo istologico in anestesia generale. Il responso arrivò da Milano durante le feste di Natale: una neoplasia si stava divorando la mandibola di Clarissa.
Agli straziati genitori un chirurgo parlò, come se nulla fosse, di pezzi di osso da segare, di lembi da rimodellare, di mascelle da tagliare, di innesti da fare. Solo che al colloquio era presente la piccola malata. A 9 anni i bambini sono in grado d’afferrare perfettamente il significato della parola tumore: qualcosa di molto brutto. «Mamma, andiamo via di qui», implorò Clarissa traumatizzata.
Bisognava fare presto, il male non aspettava. Amici di New York consigliarono ai genitori di portarla al Memorial Sloan Kettering hospital, un monumento alla mestizia fin dal nome. È il famoso «cancer center» dove andarono a farsi curare il povero Giovannino Agnelli, suo zio Gianni, lo scrittore Tiziano Terzani. Lì c’è il professor Jatin P. Shah, un luminare specializzato nei tumori della bocca.
D’inverno il clima nella Grande Mela non è certo quello di Palermo. Tutta la famiglia – padre, madre, due figli, suocera – si rifece il guardaroba e partì. Il professor Shah fu gentile e sbrigativo. Esaminò lastre e referti portati dall’Italia e concluse: «Si può operare». La visita, pochi minuti, era finita. Costo: 3.000 dollari. All’uscita la segretaria esibì il preventivo dell’intervento chirurgico: 350.000 dollari.
Il padre di Clarissa telefonò ai parenti in Italia: «Mettete in vendita la nostra casa, cercate di raccogliere più quattrini che potete». Poco dopo fu richiamato da un amico in pena per lui: «Ma hai provato prima a Bergamo? Anche a Bergamo fanno di questi interventi». Cambio del biglietto di ritorno: destinazione Milano anziché Roma. A Bergamo lo specialista scosse il capo e arretrò: «Mi dispiace, per un’operazione così complessa sarebbe molto meglio se vi affidaste al professor Pier Francesco Nocini. Lo trovate a Verona».
I palermitani giunsero nella città veneta sfiniti e disperati. Il professor Nocini li ricevette subito. Forse per non dar torto a De Amicis: ha sangue romagnolo nelle vene. O forse per l’impronta genetica che in quel sangue gli ha lasciato suo padre Sinibaldo, che fu medico di famiglia per 45 anni e fino all’ultimo accorse subito ovunque lo chiamassero, di giorno e anche di notte, come usava una volta, con incrollabile fiducia in quella scienza che pure non era riuscita a salvargli due dei suoi cinque figli: Antonio, ucciso a un anno da una banale crisi respiratoria, e Giorgio, morto a 30 anni per un’embolia dopo un incidente stradale. Alla fine del colloquio Clarissa e i suoi cari erano tornati a sorridere.
Lo specifico del professor Nocini, 50 anni, mago della chirurgia ricostruttiva (oltre 6.000 interventi all’attivo) che quest’anno festeggia le nozze d’argento con la medicina, è restituire il sorriso a chi l’ha perso, e senza chiedere un soldo. Non si tratta di linguaggio figurato: dal direttore dell’unità operativa di odontoiatria e chirurgia maxillo-facciale del Policlinico, docente all’Università di Verona e alla Sapienza di Roma, i pazienti arrivano senza sorriso per ragioni fisiche, prim’ancora che emotive: malformazioni congenite, malattie, incidenti hanno portato via dal loro volto le mascelle, i denti e il naso, deformato mostruosamente le proporzioni anatomiche, infossato le orbite, aperto fenditure nel palato e nel cranio.
Il medico veronese è riuscito ad applicare la sua abilità chirurgica persino a una salma. Dopo l’esumazione dei resti di Cangrande I della Scala, ha ricostruito con una speciale resina, e l’ausilio del computer, il cranio del condottiero che dal 1314 al 1318 ospitò Dante Alighieri in fuga da Firenze.
Nell’ambito di questo programma intensivo di specializzazione che ormai è diventato una missione di vita, di recente il chirurgo ha deciso di mettere la sua abilità a disposizione del Cerris, un centro di accoglienza per disabili, e del Servizio tossicodipendenze dell’Ulss 20 del Veneto, «perché la prima cosa che la droga distrugge è il cavo orale», spiega.
La sala operatoria del professor Nocini, consigliere nazionale della Società italiana di chirurgia maxillo-facciale, è attrezzata come il bancone di un falegname: a paziente «aperto», lui lavora con trapani e frese per costruirgli in meno di 40 minuti le parti del viso perdute. Per farlo, utilizza porzioni di osso, di muscolo e di pelle prelevate in altre zone del corpo. È stato il primo al mondo a eseguire in contemporanea la ricostruzione del mascellare superiore e della mandibola utilizzando un unico lembo di perone, che ha rimodellato e inserito nella bocca del malato. Gli esiti, anche dal punto di vista estetico, sono a dir poco sbalorditivi.
Clarissa è tornata a sorridere un anno fa, proprio di maggio. Per conseguire l’eccezionale risultato che osservo sullo schermo di un computer il chirurgo le ha asportato un pezzetto di gamba. Ma nessuno se n’è accorto, nemmeno lei, e la sua deambulazione non ne risentirà minimamente. All’inizio Clarissa era giustamente preoccupata: «Ma da grande potrò mettere le calze trasparenti senza che si noti la cicatrice nel polpaccio?». «Certo che potrai indossarle», l’ha tranquillizzata il medico.
Che tipo di patologia presentava la bambina di Monreale?
«Un mixoma angiomatoide che le aveva sovvertito la struttura anatomica mandibolare, alterando la funzione masticatoria e l’estetica del viso. Il dottor Juan Rosai, direttore dell’anatomia patologica presso il Centro diagnostico italiano di Milano, ha detto che in tanti anni d’attività non s’era mai imbattuto in un caso simile. Di solito il mixoma colpisce nella zona pelvica».
Perché fra tutte le parti del corpo umano ha deciso di dedicarsi proprio alla faccia?
«Nel 1978 rimasi molto impressionato da un ragazzo di 20 anni che giunse politraumatizzato al pronto soccorso di Pavia, dov’ero tirocinante. Oggi lo definiamo fracasso panfacciale. Quel giorno mi sembrò poltiglia: gli occhi non si vedevano più, il naso era completamente abraso, la faccia schiacciata e allargata come un piatto, tant’è che gli americani la chiamano in gergo dish face. Ricordo che la madre riuscì a riconoscere suo figlio solo dal colore dei pantaloni rossi».
Quanti interventi simili a quello di Clarissa esegue in un anno?
«Una cinquantina. Per la microchirurgia abbiamo liste d’attesa di due anni e mezzo. Bambini, oncologici, malformati e traumatizzati hanno la precedenza assoluta. Ciò nonostante per i tumori bisogna stare in coda quattro mesi: troppi. Opero nei primi quattro giorni della settimana. Sarebbe indispensabile aggiungere il venerdì. So che il direttore dell’Azienda ospedaliera, con cui la mia clinica universitaria è integrata, se ne sta occupando attivamente, anche perché la Regione Veneto ci ha dato il riconoscimento di centro di riferimento regionale per l’attività di ricostruzione microchirurgica cranio-maxillo-facciale. Ma per operare di più occorre più personale. Qui già adesso medici e infermieri vanno oltre lo straordinario: quello che fanno dalle 16 in avanti lo considerano volontariato. È un sacrificio che da un lato mi commuove e dall’altro mi dispiace».
Da dove arrivano i pazienti?
«All’inizio, quando cominciai col mio maestro, il professor Paolo Gotte, per il 70-80 per cento giungevano da tutte le regioni d’Italia. Adesso questa percentuale è scesa al 35, segno che la microchirurgia si fa con eccellenti risultati un po’ dovunque. Anche se continuano a mandarci casi particolarmente complicati. Di recente m’è capitato di dover ricostruire la mandibola e parte del collo a un soldato albanese di 25 anni devastato da una raffica di kalashnikov».
Quanto dura un intervento?
«Le ricostruzioni oncologiche fino a 14 ore. Si comincia con la demolizione del viso e lo svuotamento del collo in monoblocco col tumore. Poi ha inizio la parte ricostruttiva utilizzando lembi ossei, muscolari e cutanei».
Che preleva da dove?
«Dall’addome, dall’avambraccio, dal dorso, dalla coscia, dalla cresta iliaca. Con un lembo di teca cranica si può rifare un’orbita oculare».
Lascia il cervello senza protezione?
«Ma no, la scatola cranica ha una sezione di 4-5 millimetri. Si porta via la metà di questo spessore e solo in una piccola porzione di teca. Un’altra grande risorsa è il perone, indispensabile nella chirurgia preprotesica. Serve per ricostruire il mascellare superiore o la mandibola distrutti da tumori, da gravi parodontopatie o da incidenti, consentendo il successivo impianto di nuovi denti. Stiamo parlando sempre di lembi ossei tolti allo stesso paziente, così da scongiurare qualsiasi rischio di rigetto».
Senza perone non si perde l’uso della gamba?
«Assolutamente no. Come potrei trasformare un malato in un invalido? Il perone è un osso accessorio di 35-38 centimetri, la tibia basta e avanza per tenerci in piedi. La difficoltà consiste nel toglierlo e nel suddividerlo in vari pezzi delle misure necessarie, conservando i relativi tratti di arteria e di vena, che poi saranno collegati ai vasi del collo in modo che l’osso continui a essere nutrito dal sangue e quindi possa crescere».
Ma come fa a ridare un naso a chi l’ha perso per un tumore o un incidente stradale?
«Lo rifaccio con un lembo prelevato dalla fronte, detto lembo indiano».
Perché indiano?
«Perché la sanzione per le donne indiane che tradivano il marito era il taglio del naso e dunque quelle popolazioni sono state le prime a trovare un modo per ricostruire l’organo mozzato».
Per fortuna la civiltà s’è evoluta.
«Ma perdere la faccia rimane, in tutti i sensi, l’evento più facile che possa capitare. Purtroppo nessuno ne tiene conto. Qui vediamo di tutto: dal marito che se la sfracella cadendo dalla scala mentre aiuta la moglie a installare le tende alla ragazza che sbatte contro il poggiatesta per una brusca frenata, ciò che m’induce a raccomandare l’uso delle cinture di sicurezza in auto anche a chi siede dietro. Lo stesso dicasi del casco. Indossarlo senza chiudere il cinturino è peggio che non averlo: nello scontro si trasforma in un oggetto contundente che pialla il viso».
Che idea s’è fatto dei tumori vedendoli da vicino e asportandoli?
«Che in futuro noi chirurghi non avremo più lavoro e la gente ci ricorderà come dei macellai. Il cancro è sicuramente una patologia della cellula. L’ingegneria genetica arriverà a salvare e a riparare ciò che adesso siamo costretti ad asportare col bisturi».
Che cosa prova quando restituisce un sorriso?
«Il sorriso viene da dentro, non è solo un fatto di mimica facciale. Stando qui s’impara a interpretare come un sorriso anche il movimento del labbro di un paziente che dopo una demolizione maxillo-facciale ti ringrazia senza parole perché si sente liberato dal peso del tumore. Diventa un sorriso guadagnato anche quello dei genitori che non sapevano più a che santo votarsi per rimediare a un difetto congenito dei loro figli. Magari per me non è stato un atto chirurgico impegnativo, però capisco d’avergli risolto in due ore il problema della loro vita. E allora mi chiedo: ma che merito ho io per disporre di questo potere?».
È un potere immenso, in effetti.
«A volte mi succedono fatti incredibili, che mi lasciano senza fiato. Un giorno viene a trovarmi un ex paziente, che avevo operato per una grave malformazione dalla quale fino a 22 anni s’era difeso chiudendosi in casa. Mi bacia e mi dice: “Sa, professore, mi sono finalmente fidanzato. È merito suo se potrò formarmi una famiglia. La prima volta che ho fatto l’amore ho pensato a lei!”. M’è anche capitato che una donna, a cui avevo corretto il prognatismo, sia rimasta incinta e abbia partorito una bimba con lo stesso difetto. Il marito non se ne capacitava: “Ma scusi, professore, lei non l’aveva risolto il problema della mandibola?”. Va’ a spiegarglielo che il bisturi non agisce sul corredo genetico...».
Chi le ha chiesto di ricostruire il cranio di Cangrande I della Scala?
«Il professor Peter Vanezis, docente di scienze mediche legali a Londra presso la Queen Mary’s School di medicina e odontoiatria, famoso per l’esame autoptico sulla salma della principessa Diana, per le consulenze all’Onu sui massacri in Bosnia e Ruanda e per le indagini sull’Uomo del Similaun. Come Oetzi, anche il signore degli Scaligeri, del quale non esistevano dipinti, all’apertura del sarcofago appariva mummificato. La ricostruzione del cranio e l’analisi facciale ci hanno permesso di stabilire che era progenico, cioè dotato di mascella volitiva come i grandi guerrieri. Un risultato in netto contrasto con la statua in cui Cangrande è ritratto con un sorriso indecifrabile e un volto infantile, nonostante al momento della morte avesse 38 anni».
Cambiare i connotati un tempo era una minaccia, oggi è diventata una moda. Qual è il discrimine tra capriccio e necessità terapeutica?
«In un paziente io guardo innanzitutto la funzionalità dell’organo, bocca o naso che sia. Se la richiesta è solo estetica, non opero. Ma devo tener conto anche del disagio psicologico che un naso aquilino o gli zigomi sfuggenti possono provocare in certi soggetti, sino a precipitarli nel baratro della depressione. Ho imparato a distinguere dal modo in cui le persone si propongono».
Cioè?
«Chi cerca la miglioria estetica per puro capriccio è aggressivo, i suoi discorsi cominciano sempre con “io voglio”. Invece chi soffre veramente mi dice: “Le sembrerà ridicolo, ma io con questa faccia non riesco a vedermi. Può fare qualcosa? Può aiutarmi?”. A quel punto intervengo. Nel caso delle persone sposate, non prima d’aver sentito il parere del coniuge».
E come mai le serve questo parere?
«Tempo fa m’è piombato qui un carrozziere alto uno e 90, un quintale di peso, che voleva uccidermi perché la moglie, dopo un intervento correttivo, era scappata via con un altro uomo. “È tutta colpa sua, professore, l’ha fatta diventare troppo bella”, urlava impazzito».
Che cosa pensa del primo trapianto di faccia eseguito ad Amiens su una donna di 36 anni alla quale un cane aveva strappato a morsi naso, labbra e mento?
«Apre una nuova frontiera nel trattamento delle deformità facciali. Ma non bisogna dimenticare che implica la necessità di assumere per sempre una terapia antirigetto non scevra da rischi e dagli effetti collaterali pesanti. Per non parlare dei problemi di ordine psicologico, deontologico e sociale legati al fatto di dare al paziente il viso di una persona defunta. Vorrei ricordare che per molto meno, una mano trapiantata, il primo monco che se la fece innestare chiese successivamente al chirurgo di amputargliela: sentiva che non gli apparteneva».
Lei ha mai avuto casi simili?
«Ho avuto pazienti, ai quali avevo corretto gravi malformazioni, che non si sono riconosciuti nonostante il loro aspetto fosse notevolmente migliorato. E proprio per questo diffido del trapianto di faccia».
Nell’attività di rimodellatore non ha mai paura, al momento d’entrare in sala operatoria, di sbagliare, di creare un mostro?
«Sì, ho paura di non farcela, di dover interrompere il lavoro a metà. Quando l’intervento riguarda la demolizione per grandi tumori e la ricostruzione, passo i due giorni precedenti e i due giorni successivi a interrogarmi: sarò nel giusto? non tradirò la fiducia del malato che ha chiesto il mio aiuto? Mi sento molto deficiente, mi sembra una responsabilità troppo grande per una persona sola. Penso molto e mi consumo molto, temo di non essere all’altezza del compito.

Quando la persona che devo operare è una donna al terzo mese di gravidanza e suo marito mi chiede: “Almeno può fare in modo di darle il tempo per riuscire a vedere nostro figlio?”, resto senza parole».
(329. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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