Cia-gate, conto alla rovescia a Washington

Tra i rinviati a giudizio si fanno i nomi dell’ex capo della Cia, Tenet, e del numero due dello staff di Bush

Cia-gate, conto alla rovescia a Washington

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Da ventiquattro ore Washington, quella che conta, vive a porte chiuse. Fuori è stata una limpida giornata di sole e vento, ma nessuno se ne è accorto dietro le barricate di riserbo dei centri di potere e di decisione. A porte chiuse la riunione del Gran Giurì incaricato di decidere le sorti di coloro che alla Casa Bianca potrebbero avere violato la legge mettendo «a nudo» l’identità di una spia della Cia. Chiuso, nel più totale riserbo, prima e dopo, il magistrato inquirente Patrick Fitzgerald. Sbarrati nei loro uffici i due alti funzionari che si aspettavano, e forse tuttora si aspettano, il peggio: Karl Rove, numero due dello staff della Casa Bianca e «Scooter» Libby, braccio destro del vicepresidente Cheney. In silenzio anche i rispettivi «principali».
Riserbo massimo anche alla Cia, soprattutto dopo che si è diffusa la voce che fra i rinviati a giudizio potrebbe anche esserci Charles Tenet, ex capo dello spionaggio Usa. Washington è famosa per non saper «tenere un segreto». Per un giorno pare che ci sia, in via eccezionale, riuscita, forse perché troppo alta era ed è la posta in gioco. Le polemiche, numerose e anzi sempre più veementi, sono rimaste fuori dall’aula in cui i giurati si sono riuniti per ascoltare, una volta di più, Fitzgerald e le sue richieste; ammesso che egli abbia fatto richieste e non sia parte di un rinvio. Il mandato del Gran Giurì scade domani e domani, tecnicamente, dovrebbe annunciare la propria decisione. Ma non è escluso un rinvio di qualche giorno. Molti, comunque, se l’attendevano ieri perché una legge non scritta, una specie di galateo, dice che il magistrato che conduce l’inchiesta non aspetta mai l’ultimo giorno per presentare la propria richiesta e la conclusione delle proprie indagini.
Ma tutto è eccezionale, in questo «caso». È perfino possibile, sempre tecnicamente, che il mandato della giuria venga esteso. Non si sa dunque neppure se Fitzgerald abbia materialmente consegnato al presidente di questa grande giuria popolare la busta sigillata che contiene le sue conclusioni. Di certo si sa solo che Fitzgerald ha abbandonato l’aula appena conclusa la propria esposizione: anche lui deve rimanere fuori dalle porte chiuse durante le deliberazioni. Il Gran Giurì non è l’equivalente di una giuria popolare in un processo, perché non deve decidere sulla colpevolezza o l’innocenza di un imputato bensì soltanto se ci sono sufficienti motivi per incolpare qualcuno di un delitto. Ma anche in questo caso il «pre-verdetto» deve essere deciso all’unanimità. Basta dunque l’opposizione di un giurato per bloccare il procedimento, sia negando quella specie di autorizzazione a procedere, sia dichiarandosi incompetente e aprendo la strada alla formazione di un nuovo Gran Giurì.
Se della relazione di Fitzgerald non si sa nulla, è noto invece che egli ha indagato a fondo la vicenda di Valerie Plame, l’agente segreto cui fu strappato il segreto, per quasi due anni, interrogando o facendo interrogare tutti i possibili testimoni. Ancora ieri l’altro agenti dell’Fbi hanno preso contatto, ad esempio, con dei vicini di casa di Valerie per chiedere se qualcuno fra loro avesse avuto sentore in precedenza della sua attività. Tutti hanno risposto di no. L’indiscrezione, dunque, può essere venuta solo dall’alto.
È noto dal diario di Libby, che egli ha parlato del caso con Cheney. Subito dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo di Joseph Wilson, marito della Plame, con la rivelazione che la sua missione nel Niger non aveva trovato né prove né indizi di un tentativo di Saddam Hussein di procurarsi uranio: uno dei motivi dichiarati dell’attacco all’Irak in quanto indicazione di un «pericolo immediato» di un attacco nucleare iracheno contro l’America: asserzione che nell’atmosfera concitata dell’immediato indomani della strage dei terroristi a New York parve meno assurda di quanto non lo sia oggi.Perfino il segretario di Stato Colin Powell l’accolse nell’elenco delle «prove» che egli presentò al Consiglio di sicurezza dell’Onu, solo per confessare anni dopo di essersi fidato di materiale falso. Tenet sedeva dietro Powell, anche se si sapeva già da allora che la Cia non condivideva né i metodi né le conclusioni delle «indagini».

Gli uni e le altre furono, questo è certo, frutto dell’iniziativa di un ristretto gruppo di consiglieri della Casa Bianca, capeggiato da Cheney e composto tra l’altro del ministro della Difesa Rumsfeld, del suo vice Wolfowitz e di Liddy.

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