Nell’estate del 2004 Luca Goldoni, al quale voglio molto bene anche perché mi ha trasmesso il virus del giornalismo, mi chiese di partecipare con un capitoletto a un libro sul calcio composto a più mani. Dovevo spiegare le ragioni della mia fede e lo feci così: «Io sono interista perché a nessuno, nella vita, può andare tutto bene: io sono stato fortunato nella moglie, nei figli, nel lavoro, nella salute; era chiaro che qualcosa dovesse andarmi storto. Tutti devono portare una croce: la mia è l’Inter».
Per quelli della mia generazione, troppo piccoli ai tempi di Herrera, il tifo per l’Inter non è stata una scelta: è stata una disgrazia. Abbiamo cominciato a tifare con un presidente che aveva un nome da epiche vittorie, Ivanhoe, ma un braccino corto corto: quando la Juve prese Platini, rispondemmo arruolando un tale Juary, che non era all’altezza del francese ma della bandierina del calcio d’angolo; e quando sempre la Juve prese Paolo Rossi, noi gli opponemmo uno stopper che sembrava un trapano, Bachlechner. Poi arrivò Pellegrini. Agnelli lo chiamava «il mio cuoco» perché gestiva, tra l’altro, l’albergo di Villar Perosa. Pellegrini era volonteroso ma maledetto dalla legge di Murphy: un paio d’anni dopo che aveva preso l’Inter, Berlusconi prese il Milan, rendendo il confronto imbarazzante. Infine è arrivata la stagione di Massimo Moratti. Grandi sogni, grandi investimenti. Ma vittorie zero, libri di barzellette sull’Inter a quintalate. Gli amici del Toro o della Fiorentina cercavano di consolarci: che cosa dovremmo dire allora noi. Ma era diverso. Anche loro non vincevano, ma perlomeno non si illudevano al momento della campagna acquisti. Sono le aspettative deluse che ci hanno rovinato l’esistenza.
Poi a un certo punto è successo qualcosa. Proprio in quell’estate del 2004 in cui scrivevo che l’Inter è una croce, è arrivato Roberto Mancini. «L’ho preso perché qualcosa mi dice che è l’uomo giusto per noi», disse Massimo Moratti. Era una sensazione giusta. Mancini è un interista. Ma non un interista sfigato come quelli della mia generazione. È, curiosamente, un vetero-interista: pur essendo nato nel 1964 (anno in cui l’Inter vinse la prima Coppa dei Campioni, e forse non è un caso), Mancini parla si veste e si muove come un tifoso interista anni Sessanta, quelli della Milano-bene, quelli che tra loro si chiamavano Dodi Popi Iaia e Fofi, quelli del Porsche e del Ferrarino, quelli talmente ricchi e quindi talmente pigri che facevano fatica anche a pronunciare per intero i nomi delle città delle loro seconde case: questo week end non so se andare a Santa (Margherita) o a Madonna (di Campiglio).
Mancini è insomma un bauscia, come si diceva allora: il fanfarone, lo sbruffone. Fu Brera a dividere la Milano del calcio in bauscia (gli interisti borghesi e danarosi) e i cacciavite (i milanisti, quelli della Milano operaia di Romanzo Popolare con Tognazzi). Del bauscia ha esibito tutto, in questi quattro anni: il maglioncino, la sciarpina, l’abbronzatura. E, soprattutto, la sicurezza di sé. In un mondo di perdenti qual era l’Inter - per Inter intendendo tutto, anche i tifosi dai cinquant’anni in giù - Mancini ha finalmente portato un po’ di spocchia. E sarà un caso, ma la ruota è girata. Prima le Coppe Italia, poi le Supercoppe, poi gli scudetti. E la Juve in B, e il Milan in Uefa. Ma vieni. Ma vai.
Roberto Mancini è stato per quattro anni il nostro psichiatra collettivo: ci ha liberato dai complessi, grazie a lui i miei figli stanno credendo che nella vita le cose possono anche finire bene. Può darsi che i tempi per la separazione fossero maturi.
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