Un cucchiaio daceto, sale e pasta dacciughe: un mix che si avvicina per il sapore acre e pungente a quella che fu per secoli la salsa universale dellantica Roma, il «garum». Talmente diffuso che il grande cuoco romano Apicio lo inseriva in almeno una ventina di ricette del trattato De re coquinaria. La sua preparazione appare ai nostri gusti asettici piuttosto nauseante: in una vasca impermeabilizzata con la pece si poneva del pesce sminuzzato, con una gran parte di interiora e altri scarti della lavorazione ittica. Il tutto veniva poi salato, a volte aromatizzato con erbe, e lasciato fermentare sotto il sole per settimane. Il composto veniva poi filtrato e separato in una parte liquida (liquamen) e in una semi-solida (hallec).
Le qualità prodotte erano molte: la più pregiata, il garum sociorum, ottenuto dagli sgombri delle coste spagnole, era costoso come un profumo. Veniva utilizzato come balsamo per lenire ulcere e ustioni e persino come disinfettante. Le qualità mediocri, consumate in massa dal popolo e dagli schiavi, furono responsabili dellintossicazione di milioni di persone. Sebbene il sale evitasse in parte la decomposizione, facilmente nel garum poteva annidarsi il batterio del botulino. Non a torto Seneca ne condannava luso, definendolo «piccante marciume». Tra gli estimatori, invece, Plinio il vecchio che definisce la salsa «liquor exquisitus», e Petronio.
Il suo gusto doveva somigliare a quello del nuoc-mâm, un liquore di pesce molto usato nella cucina indocinese. Oggi lultimo raffinato erede del garum è la colatura di alici di Cetara, nella Costiera amalfitana.
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