Lhasa e il Tibet sono di nuovo nella morsa del vecchio padrone. Pechino deve solo decidere se stritolare i rivoltosi, mettendo a rischio la rappresentazione olimpica o allentare la stretta e rimandare la rappresaglia al dopo Giochi. Da ieri le forze di sicurezza rivoltano le case della capitale regionale e perlustrano i sobborghi. L’ultimatum che minaccia pene durissime per i responsabili dei disordini rimasti alla macchia è scattato alla mezzanotte di ieri, ma la grande caccia non è ancora iniziata. Il clima di altissima tensione sembra, però, l’inevitabile preludio di un giro di vite. Mentre Pechino studia le mosse la protesta tibetana agita le sue bandiere fino a Pechino. Ieri qualche dozzina di studenti tibetani ha inscenato una veglia di protesta nel cuore della capitale cinese. Il coraggioso gruppetto riunito all’interno dell’Università delle Nazioni dichiara di voler soltanto ricordare i «morti di Lhasa», ma si ritrova ben presto circondato dalla polizia e costretto a rinunciare.
I timori d’una irrefrenabile voglia di vendetta e la paura di un’imminente repressione in stile Tienanmen fanno tremare sia i ribelli di Lhasa sia i loro fratelli all’estero. Chi ammette la paura sottolinea il tono gelido del comunicato che fissa l’ultimatum scattato alla mezzanotte di ieri. «Chiunque non si consegni spontaneamente subirà dure conseguenze» recita il documento delle autorità filo cinesi di Lhasa. Frasi accompagnate dallo sferragliare dei carri armati e dal passo delle colonne in movimento ai quattro angoli della città. «Le autorità cinesi stanno facendo di tutto per allontanare gli stranieri dal Tibet, abbiamo paura che si preparino ad una risposta sanguinosa, temiamo che il Tibet si trasformi in una nuova Tienanmen» ripete da Londra Anne Holmes, direttrice del Free Tibet Campaign. Dal quartier generale indiano di Dharamsala i portavoce del governo in esilio tibetano ribadiscono la certezza di un massacro già perpetrato accusando le forze di sicurezza cinesi di aver ucciso centinaia di militanti. A quel bilancio andrebbero aggiunte le vittime degli scontri scoppiati domenica in quattro province abitate da minoranze tibetane. Ad Aba, nella provincia del Sichuan, i rivoltosi, stando alle voci, hanno bruciato vivo un poliziotto innescando la reazione delle forze antisommossa che hanno sparato sulla folla trucidando 18 persone.
Per contrastare questo balletto di cifre Pechino ribadisce il bilancio di 13 morti tutti appartenenti all’etnia Han linciati dalle folle tibetane in rivolta. «Hanno bruciato vivi o bastonato a morte 13 innocenti, mentre le forze di sicurezza non hanno usato armi letali», ripete Qiangba Puncog, capo del governo del Tibet, smentendo le decine di testimonianze sulle sparatorie di Lhasa.
L’ultimatum scattato ieri non ha, per ora, introdotto alcun sostanziale mutamento. Lhasa resta una città fantasma battuta dalle forze di sicurezza. Il timore di un’imminente repressione, simile a quella lanciata in Birmania dopo le rivolte dei monaci di settembre, aleggia, però, anche nelle parole di Condoleezza Rice. Il segretario di stato Usa ricorda di aver «da tempo sollecitato i cinesi a trovare una strada per dialogare con il Dalai Lama». L’invito al dialogo della Rice, preceduto dalle dichiarazioni con cui il Dalai Lama ha bocciato l’idea di un boicottaggio, fa intravedere uno scarto tra le posizioni dei capi della rivolta di Lhasa e il padre spirituale in esilio. Quest’ultimo punta, in linea con Washington, al dialogo sempre rifiutato da Pechino. I «giovani leoni» usciti dai santuari tibetani sembrano invece preferire la prova di forza e lo scontro diretto con l’occupante per innescare il boicottaggio olimpico.
Il pendolo delle reazioni internazionali resta comunque estremamente misurato e ben lontano dall’impensierire i signori di Pechino.
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