
Dopo il recente Biancaneve, che è stato tutto tranne che un remake del classico con cui buona parte di noi è cresciuta, nonché uno dei flop commerciali più memorabili della Disney, ora è venuto il momento di Superman: fra i protagonisti dei fumetti DC, l'icona cult nata negli anni '30 dalla fantasia di Jerry Siegel e Joe Shuster, poi maestosamente incarnata da Christopher Reeve, nel 1978, in un film che davvero ha fatto storia. Diretta da Richard Donner, la pellicola dava voce all'anima autentica di quel personaggio, grandioso quanto semplice: un alieno atterrato sul nostro pianeta, una creatura con poteri strabilianti e che nulla aveva da spartire con gli umani, ma che agli umani pure badava per la sua perenne scelta altruistica, per l'umiltà e la mitezza di cuore, perfino per la timidezza, per il senso del dovere e del sacrificio, per la difesa della giustizia. Ecco l'essenza di Superman, quello vero: un'epica del bene in versione stellare, un poema delle speranze per come la sognava l'America fino a qualche decennio fa, le stesse che adesso, nell'adattamento del regista James Gunn, sono ampiamente ridimensionate.
Il nuovo Superman semplicemente non è Superman, voglio dire questo. È la sua capitolazione, la sua nemesi, o peggio la sua parodia. Il Superman del 2025, caricatura del suo predecessore, è mediocre, è permaloso e pieno di timori: un perdente in calzamaglia e mantello, che non fa che lamentarsi e prendere una scarica di botte dopo l'altra. Altro che eroe! James Gunn ci consegna l'antieroe per antonomasia, creando una sorta di mostro fragilissimo, un Achille con le stampelle affossato da tutto, e principalmente dall'ideologia woke, che fagocita la sceneggiatura.
Fossi un'adolescente, affermerei che Gunn è un boomer, un moralizzatore con la fissa di divulgare le proprie idee, uno disposto a qualsiasi cosa pur di convincerci che Superman non è più super ma umano cioè deludente, scarso, fallimentare Superman non è più un faro dell'immaginazione, non è più un figlio della creatività bensì un simbolo di partito, è lo Zio Sam rivisitato e messo a fare propaganda. Non è male che un'opera d'arte esprima una visione politica, anzi è naturale, è giusto. A infastidire è piuttosto l'eccesso della contestualizzazione di Gunn. È la faziosità, la partigianeria spudorata, che trasformerebbe qualsiasi racconto in slogan, e il neo Superman in particolare in un infinito inno al woke, una specie di assurdo spot lungo due ore che vorrebbe solo educare, educare e ancora educare, oltre che umiliare il genere della narrazione fiabesca, in cui la storia di Superman rientra e che Gunn ha sconvolto, sbagliando, o dovrei direi soccombendo.
Perché stravolgere le fiabe è difficilissimo, è una sfida per pochi: c'era riuscita nel secolo scorso la scrittrice Angela Carter, e con risultati spettacolari. Gli esiti di James Gunn sono al contrario miseri, noiosi, da dimenticare.