Cinque condanne a morte per gli scontri post-elettorali

Nessuna pietà per i dissidenti. Mentre la moglie del presidente Mahmoud Ahmadinejad è in Italia per parlare di fame nel mondo, il marito continua a governare col pugno di ferro. Secondo la televisione iraniana sono cinque le persone condannate a morte e 81 a pene carcerarie fino a 15 anni in relazione alle proteste di piazza seguite alle elezioni presidenziali di giugno. Citando un comunicato del tribunale provinciale di Teheran, l’emittente ha detto che i cinque condannati alla pena capitale sono affiliati o sono membri di «gruppi controrivoluzionari».
Negli ultimi mesi in Iran si è assistito a una nuova stretta da parte delle autorità governative e giudiziarie anche nei confronti dei mezzi di comunicazione: decine di quotidiani, settimanali e siti, di stampo riformista, e quindi critici nei confronti del governo in carica, sono stati chiusi con diverse motivazioni quali attentato alla sicurezza nazionale e collaborazione con media e agenti stranieri intenti ad una «rivoluzione di velluto» in Iran.

Il giro di vite nei confronti dei giornalisti iraniani è iniziato subito dopo le elezioni presidenziali del 12 giugno scorso, quando la stampa riformista si è fatta portavoce dei milioni di manifestanti che, in segno di protesta all’operato delle autorità nel conteggio dei voti, erano scesi in piazza, considerando le elezioni «irregolari», perché alterate dal governo. La radio e la tv nazionale sono controllati direttamente dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.

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