Cinque pittori sulla tavolozza di Proust

Dire che quella di Proust è una scrittura pittorica, generata da lievi tocchi in punta di pennello, curve morbide e sinuose, luci impressioniste, dissolvenze che inseguono lontananze, è banale. Ma è banale se lo diciamo noi. Se lo dice lui, non è più un’affermazione banale: diventa la traccia lasciata dal maestro sul terreno affinché i discepoli lo seguano per sempre. Ovunque: dalla parte dei Guermantes o da quella di Méséglise, sulla spiaggia di Balbec o nel faubourg Saint-Germain, nella camera di Albertine o in quella della nonna... In una lettera a Madame de Noailles del giugno 1904, definisce così la bellezza: «È una specie di sfumato, di unità trasparente in cui tutte le cose, perdendo il loro primigenio aspetto di cose, sono venute a disporsi le une accanto alle altre in una sorta di ordine, penetrate dalla stessa luce, viste le une nelle altre \. Suppongo che sia ciò che si chiama la patina dei maestri» (citata nella biografia di Jean-Yves Tadié). E descrivendo il nucleo dell’arte di Elstir, il pittore che nella Recherche incarna, anche foneticamente, Helleu e Whistler, specifica (in All’ombra delle fanciulle in fiore): «Lo sforzo compiuto da Elstir per spogliarsi, di fronte alla realtà, di tutte le nozioni dell’intelligenza, era tanto più ammirevole in quanto quell’uomo che, prima di dipingere, si faceva ignorante, dimenticava tutto per probità (perché quel che sappiamo non è nostro), aveva un’intelligenza straordinariamente colta».
Per Proust, insomma, l’arte in generale e la pittura in particolare è una fedele registrazione delle «intermittenze del cuore». Lo è persino con le sue amate cattedrali quando, viste laggiù, in fondo alla strada e oltre i boschi, si armonizzano nell’incanto del paesaggio al crepuscolo. Sappiamo che in materia di intermittenze il cuore dello scrittore ha pochi eguali, nella storia della letteratura. E sappiamo anche che proprio la contemplazione dei quadri prediletti gli procurava l’esondazione dei ricordi, che così potevano irrorare, di volta in volta, una tavola sparecchiata a metà, l’angolo più ombroso d’un giardino, una carrozza che avanza lentamente nel gelo invernale. Ora, riuniti sotto il titolo di Pittori (ed. Abscondita, pagg. 76, euro 11, traduzione di Paolo Serini, con uno scritto di Federico Ferrari), cinque articoli di Proust risplendono per acutezza d’analisi e profondità di sentimento. Le opere di Chardin, Rembrandt, Watteau, Moreau e Monet escono dalla tela e, come «specchi» ci restituiscono l’immagine del critico ammirato. «Da principio, le opere d’un uomo posson somigliare più alla natura che non a lui. Ma, più tardi, quell’essenza della sua individualità \ le impregna in modo più completo.

E verso la fine è evidente che soltanto essa costituisce per lui la realtà, e che egli lotta sempre più per esprimerla nella sua interezza». Il quadro è «un cantuccio d’un mondo misterioso». Soltanto chi lo merita può entrarvi quale ospite inatteso ma gradito, giusto il tempo d’una intermittenza del cuore.

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