«Una città di dopati»

A rrivato in Val Tidone nella casa di Carlo Zucca Alessandrelli, fondatore della terapia psicoanalitica di gruppo a Milano ed esperto nella terapia delle tossicodipendenze, avevo soltanto voglia di annusare un fiore. Parlare di Milano, no; tanto meno dal punto di vista psicologico, sebbene Zucca sia uno dei maggiori psicanalisti milanesi degli ultimi decenni. A un certo punto, ci siamo ricordati del «malato lontano» - la città - e della sua cartella clinica dove,, tra le molte patologie, sta scritta in rosso anche questa: solitudine...
«La solitudine - ha commentato Zucca - è l'altra faccia di un malessere che sta diventando un'emergenza sociale e culturale: la dipendenza. Dal lavoro, dagli psicofarmaci, dal gioco d'azzardo, dalla pornografia, persino dalla solitudine stessa. A Milano pensiamo alla diffusione della cocaina».
Lei è appunto uno studioso di addiction...
«La storia parte da lontano: dal Paolo Pini, dove all'inizio degli anni Settanta stavo facendo il mio tirocinio nel Servizio di Psicologia Clinica. Fu in quel periodo che esplose il fenomeno della droga. Cominciarono ad arrivarci ragazzi - persino dal distretto militare - che presentavano sintomi molto strani. Pian piano confessarono di assumere hashish, oppure acido lisergico, sulla scia di Timothy Leary. Poi arrivò l'eroina, dal giugno 1972».
Data precisissima...
«L'impressione dei ragazzi che ascoltai all'epoca fu quella che qualcuno avesse aperto un mercato, e in modo massiccio. Dovemmo trovare gli strumenti adatti per affrontare questa epidemia. Era una difficile novità anche per noi».
Qualcuno vi aiutò?
«C'erano persone illuminate, come Corbo, il direttore di San Vittore: separò i detenuti per droga dagli altri. Fu lì che nacque la prima terapia psicoanalitica di gruppo per giovani con problemi di droga in Italia. La tentai grazie al sostegno dei miei maestri, Zapparoli e Ferradini, che dirigevano il Servizio, e Senise e Lopez, che allora, formavano la scuola milanese di psicoanalisi».
E poi?
«Una volta usciti, i giovani avevano ancora bisogno di cure. Così nacque il CART, il Centro Assistenza e Ricerche sulle Tossicodipendenze, finanziato dalla Provincia».
Come è cambiata la dipendenza da allora?
«La dipendenza oggi non è più considerata una "malattia" biologica, ma un sostegno o un rifugio corazzato della mente, un bendaggio per una identità fragile e al tempo stesso grandiosa. Tecnicamente, un'addiction. Ma la prestazione dopata o il bendaggio ti portano via a te stesso: non lasciano il modo di elaborare un'esperienza».
Una deriva connaturata allo stile di vita di oggi.
«Certo, e fin da piccoli. Pensiamo a quei genitori che investono i bambini di un progetto individualista, tutto basato su obiettivi da raggiungere, dove mantenere un dialogo con gli altri è un fattore relativo».
Perché si è arrivati a questo?
«La mancanza del padre ha creato una fragilità nella formazione di un individuo. Spesso la dipendenza malata si forma come reazione al bisogno insoddisfatto di essere riconosciuti come soggetto. Era il padre che permetteva questo riconoscimento e dava gli strumenti per contenere il proprio narcisismo. Che non permette un rapporto con l'altro, ma solo vampirizzazione».
Una dinamica - anche sentimentale - frequente in una grande città.
«Milano non vuole mettere in discussione quelle istanze narcisistiche che impediscono di amare. E invece ha la necessità di imporsi un senso di sé più reale, meno grandioso».
Diminuendo così la solitudine tra le persone.
«Sì.

A Milano il fare è ancora vissuto come più importante dell'elaborazione degli affetti. Si rincorre la sopravvivenza o il potere che viene dalla propria attività. Ma il fare fine a se stesso è una prigione. E significa pure - anche se nessuno lo ammette - il crepuscolo del dovere».

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