La claque di popolo è giusta solo se ce l’ha con il premier

Ci mancava il tamburo antropologicamente superiore. Tamburo, fischietto e claque come espressione del popolo che, si sa, è di sinistra. Perché la claque di destra, quella che si è manifestata fra la sorpresa e il disagio generali, nientemeno, al palazzo di giustizia di Milano, e più precisamente all’udienza del processo Mills, pare inferiore. Povera, arretrata, persino priva di fantasia. Vuoi mettere con i giovani, le bandiere e i cartelli che hanno tallonato a Torino il premier? Berlusconi presentava il candidato sindaco del centrodestra e loro lo insultavano, gli gridavano frasi inedite tipo «dimettiti», «che fai, Ruby» fino al più compunto «l’Italia non è una repubblica fondata sulla prostituzione» e altro ancora. Certo, quello è il cuore pulsante dell’Italia, o così ce lo descrivono molti giornali, l’Italia stremata dalla crisi e dal berlusconismo, l’Italia che tira la cinghia e non arriva ala fine del mese, l’Italia che si fa intervistare ad Annozero e a Ballarò. Una sorta di Terzo stato postmoderno, la rivisitazione aggiornata della celebre tela di Pellizza da Volpedo. Quella sì che è una claque genuina. Come la piazza di sinistra di cui è un’ovvia prosecuzione. La piazza che s’indigna, che manifesta, che erutta il suo rancore per la sempre evocata deriva di questi anni, che usa tutte, ma proprio tutte le occasioni, per alzare slogan e manifesti anti Cavaliere. È la piazza che urla per tutelare quella suprema icona che è la Costituzione e contro chi la vorrebbe stravolgere, per l’unità d’Italia e contro chi vorrebbe sconsacrare il nostro paese, per la dignità della donna e contro chi l’avrebbe violata con il bunga bunga. La piazza e la claque. E volendo pure i girotondi. Altra classe. Invece, a leggere certe cronache, che spettacolo misero hanno offerto quei signori e quelle signore di mezza età che si sono ritrovati nel tempio di Mani pulite. E hanno ripetuto i loro monotoni slogan: «Viva Ghedini», «Bravo Ghedini». Più un sospetto, supersospetto: «Siamo qui tutti spontaneamente». Frase che naturalmente fa pensare l’esatto contrario, come una sorta di excusatio non petita. Figuranti, pubblico da studio televisivo, coro artefatto: in definitiva una claque semipadronale organizzata, in questo caso, dal sottosegretario Mario Mantovani.
A Torino invece sfilava il popolo, il popolo che ad ascoltare la Repubblica fa sentire il fiato sul collo ad un premier sempre più lontano, rarefatto dietro le sue guardie del corpo, come un imperatore lontano, blindato per paura del contatto con la folla. Ed è facile pensare ad un’adunata oceanica. Ma poi, a passare la lente su quelle immagini si notano sempre le stesse bandiere rosse, gli stessi simboli di quei centri sociali, le stesse facce dei professionisti dell’antiberlusconismo.

Del resto è la sensazione che il premier ha trasmesso a chi gli stava intorno a proposito di quel che è accaduto a Roma il 17 marzo per i festeggiamenti tricolori: un camioncino si è spostato seguendo i suoi movimenti e formando ad ogni sosta una claque avversa, potremmo dire un loggione pronto ad ogni sberleffo, grido, fischio. Il giorno dopo i giornali hanno titolato: Berlusconi contestato. Antropologicamente, erano quattro gatti.

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