Se penso a quanti artisti modesti hanno avuto fama e gloria, e quante curiosità e attenzioni abbia mostrato il mercato per personalità insignificanti, devo rassegnarmi ad accettare quanto i valori estetici siano incerti e quanto sia debole la nostra influenza critica. Se così non fosse risulterebbe incomprensibile il destino di oblio e di indifferenza che ha, con somma ingiustizia, reso invisibile, e ai più ignoto, Attilio Selva (Trieste, 1888 - Roma, 1970).
Difficile vedere uno scultore più autentico e dotato di Selva, in una parabola che senza discontinuità dura più di mezzo secolo. Dalle prime prove, tra il 1906 e il 1909, quando si muove, già molto dotato, nel mondo di Leonardo Bistolfi, agli anni Sessanta, senza sentirsi superato dai tempi, con commoventi capolavori come Flavia del 1959 e Collolungo del 1966. Selva è l'artista perfetto, vero come la verità, naturale come la natura. Era nato a Trieste nel 1888, e si era formato a Torino, nei primi anni del Novecento, nello studio di Bistolfi. Ha affinità e stringe amicizia con Felice Carena, in quegli anni ancora simbolista, ma carico di una profonda, dolente, umanità. Nel 1907 Selva è a Roma dove ottiene uno studio a Villa Strohl-Fern. Importante per lui, come per altri artisti, Armando Spadini, Cipriano Egidio Oppo, Angelo Zanelli e Ivan Mestrovic, è l'incontro con Angelo e Olga Signorelli, collezionisti di antichità e curiosi di giovani artisti originali e innovativi.
Gli anni erano fertili, dopo e oltre il futurismo. Nel 1911, in occasione dell'Esposizione internazionale delle belle arti e del cinquantesimo dell'unità d'Italia, Selva è nel cantiere del Vittoriano dove lavorano Bistolfi e Zanelli. Nel laboratorio dove con Zanelli lavora al grande fregio del basamento, Selva conosce Antonio Maraini. All'esposizione internazionale vede Rodin e Mestrovic; e sono tutte conoscenze determinanti. Da qui infatti, superando ogni tentazione liberty, cresce in Selva una consapevolezza della forma che fonde la potenza della scultura arcaica nelle grandi civiltà antiche e la stilizzazione di Mestrovic, manifestata nelle figure del ciclo del Kosovo. Maraini riconobbe nella originale sintesi di Selva «qualità immanenti di peso, di volume e di saldezza». Ecco Augusta del 1913, Camilla del 1914.
Insieme coi potenti ritratti in quegli anni la ricerca di Selva si concentra sui nudi femminili, presentati alla Biennale di Venezia del 1914 e alla Secessione di Roma del 1915. Fra questi Ritmi, Idolo, Raccoglimento, di compiuta maturità formale, in un rinnovato classicismo «inteso secondo spirito e non secondo accademia». Selva si affaccia al nuovo mondo dopo la fine della prima guerra mondiale, con una coscienza intatta della forma, non temendo il confronto con la scultura antica, in una serie di intensi ritratti. Nascono così capolavori come Marcellina del 1918-19, Alberta, Susanna, Enigma, il Ritratto della principessa Brancaccio. È l'ora di assoluti capolavori come La signora Carena del 1919, Sergio, Natalina, Francesca, Enrico. La naturalezza con cui affronta i suoi modelli è senza paragone. Intanto Selva ottiene il consenso di Ugo Ojetti davanti alla perfetta misura di Ritmi.
Neanche il fascismo, che pure determina uno spirito nuovo, riesce a far diventare retorico Selva, pur costringendolo a misurarsi con soggetti monumentali dalla tomba di Joanna al Verano, al monumento ai caduti di Quinto di Treviso, al monumento funebre per il principe Carlo Brancaccio, alla semplice e armoniosa Fontana delle cariatidi, in piazza dei Quiriti a Roma. La Cariatide palpita di carne come la coeva, tremante Primula (1924) che traduce la monumentalità in fremente fragilità.
Negli anni Trenta Selva si applica a importanti monumenti per Capodistria e Trieste come quelli a Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro. Mentre a Milano concepisce la statua della Giustizia per il palazzo di giustizia, e a Roma quattro degli Atleti per lo Stadio dei marmi al foro Mussolini. Nonostante i soggetti forzatamente monumentali, Selva conserva una verginità e una purezza che si manifestano nei temi familiari, domestici, lontani dalla retorica, come si vede nelle sue mostre personali, nel 1929 a Roma e nel 1939 a Trieste. Ecco lo scultore monumentale applicarsi alle teste di Camilla o del delicato Bambino malarico o ai mirabili e antichi busti di Lucilla e Giuliana.
Negli anni della guerra Selva è ancora impegnato in temi ufficiali come l'altorilievo per il Palazzo del Bo a Padova («Lo spirito volontaristico della goliardia padovana»), il monumentale San Carlo Borromeo per piazza Augusto Imperatore a Roma, la Pietà per la Cappella dei Trapassati al Verano. Ma, in una fuga nella quotidianità minuta, Selva concepisce forse il suo capolavoro: il Chierichetto, probabilmente del 1942. Nella verità interiore del volto dell'adolescente, nella sorprendente rapidità del taglio dei capelli, nell'impaziente movimento della cotta del chierichetto con il nastrino allentato, le morbide pieghe, Selva scolpisce una delle più pure e più vere sculture del Novecento. Soltanto nel dopoguerra, a fianco di soggetti religiosi come il Sant'Eugenio nell'omonima Basilica, la Santa Agnese per il Collegio Capranica, gli angeli reggicandelabro per l'altare di Santa Maria Regina degli Apostoli, e alcune Madonne per committenze private, Selva ritrova intatta la sua poetica intimistica, che culmina nella testa del figlio Sergio, nella sensuale e malinconica Elvira del 1957, nella disarmata Flavia del 1959. Capolavori senza tempo. Mai un errore, mai una caduta, in una lunga vita operosa. Oggi, un irragionevole oblio. In un'intervista dell'11 gennaio 1967, lo stesso anno in cui si afferma, nella dissoluzione della forma e dell'uomo, l'Arte povera, Attilio Selva dice: «Lo so, dicono che ormai ho perduto il treno, che sono tanto vecchio, che sono finito.
Dicono anche che quella fatta col marmo e col gesso non è più scultura, è niente. Ma non mi importa, e la moda è fatta per gli altri. Ho settantotto anni, è vero, ma quello che conta è poter lavorare». Amato, amatissimo Selva.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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