RomaAdesso che si dura di più, il cinema conta molti grandi vecchi: basta dare unocchiata alla Croisette, dove si aggirano registi ultracentenari come Manoel de Oliveira, per capire quante pagnotte dovranno mangiare, ancora, quelli fuori dai set geriatrici per colpa del calendario. Cè un ottantenne, però, che fa faville da quando sè affacciato al mondo di celluloide con quella faccia da sigaro e sombrero, più o meno uguale dagli anni Sessanta degli spaghetti western, per lui forieri di celebrità planetaria. È Clint Eastwood e, nel suo caso, la lunga durata centra relativamente con la perdurante presa sul mercato, perché - Sergio Leone o non Sergio Leone - leggenda era e leggenda resta. Altrimenti perché, vista una sua regia, Gran Torino o Invictus, per citare le più recenti, si torna a casa sazi di buon cinema, che insegna qualcosa di umano, senza però il ditino alzato a fracassarti lanima?
Buon compleanno, Clint, che a fine mese ne fa quattro volte venti, dritto come un fuso, spettinato come un ragazzaccio secco al vento di Chamonix, dove, in questi giorni, gira il thriller soprannaturale Hereafter e, stavolta, è della morte che si tratta. Non ha fatto in tempo a tallonare il bombastico Avatar in 3D, col biopic su Nelson Mandela (Invictus, con Morgan Freeman e Matt Damon), che lattore e regista Usa più amato nel mondo ci ridà dentro con Matt Damon (qui è un contadino, che parla con i morti), dirigendolo in un dramma fantastico. A confrontarsi con la Comare Secca, schivata per miracolo, ci sono tre personaggi contemporanei (nel cast, anche la belga Cécile de France, come giornalista sopravvissuta allo tsunami e i gemelli Frankie e George McLaren), le cui vicende confluiranno in una sola vena narrativa. «Alla fine, condenserò le tre vite in ununica sequenza», ha anticipato Eastwood, che il 22 ottobre manda in sala questa ricca produzione Warner (si gira a Londra, Parigi, alle Hawaai e a San Francisco).
«Sono solo un tipo che fa film», taglia corto lui, giubilato nel bel libro del critico e storico del cinema Richard Schickel, laconicamente intitolato Clint (Barnes&Noble). Non è stato facile mettere in pagina mezzo secolo di carriera, raccontando gli oltre settanta film del divo, dagli spaghetti western ai Settanta delliconico ispettore Callaghan («a quel punto, la gente pensava che portassi la 44 Magnum anche nella vita vera»), passando per Mystic River (2003) e Million Dollar Baby (2004), fino alle ultime regie. Ma il risultato, supportato da 300 fotografie, è una specie di intrigante gioco al massacro. La celebrità, infatti, commenta con la consueta, dissacrante asciuttezza i film girati, a partire dalla «Trilogia del dollaro» (1966-1968) di Sergio Leone. «I produttori italiani volevano sbarazzarsi di me. Gli attori italiani venivano dalla Scuola Hellzapoppin. E io, per fare effetto, restavo impassibile. Credo pensassero che non sapevo recitare. Ma Leone sapeva quel che faceva», dice Clint, a proposito del quale il regista romano notava: «Ha due espressioni: col sigaro e senza».
Nel 1969, rieccolo cowboy nel western di Joshua Logan La ballata della città senza nome, insieme allaffascinante Jean Seberg, con la quale intrecciò una relazione. Eastwood afferma che lei, per lui, «fu un disastro, ma non avrebbe dovuto essere un disastro così costoso». Lanno dopo, in coppia con Shilery MacLaine, che si fingeva suorina, ma era una prostituta nel western di Don Siegel Gli avvoltoi hanno fame, ci scappa un altro flirt. Chi ricorda la scena finale, con Clint che si tuffa vestito nella vasca da bagno, con la monachella a mollo, sa che tra i due fu vera passione. Pacifista e libertario,come abbiamo particolarmente notato in Gran Torino, Eastwood non conserva una grande opinione dei suoi primi film di guerra. A proposito di Dove osano le aquile, tra i preferiti di Tarantino, Clint ironizza: «Abbiamo ammazzato talmente tanti nazisti, in due ore, io e Richard Burton, che mi chiedo perché la guerra è durata tanto».
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