A pranzo con i tiranni, a cena con i perseguitati. La visita di Hillary Clinton in Birmania, la prima di un segretario di stato americano dal 1955 è un ossimoro della geopolitica, un salto tra gli opposti, un viaggio dall’Olimpo della tirannia, al desco della democrazia. Difficile definire diversamente una missione aperta la mattina dalle strette di mano con Thein Sein, il generale fattosi presidente, e conclusa ieri sera dalla semplice cena a due con Aung San Suu Kyi, la paladina della democrazia prigioniera del regime per 15 degli ultimi 21 anni. Un viaggio dalla notte al giorno, un viaggio di cui si stentano a comprendere motivazioni e obbiettivi.
A guidare Hillary nei misteri di Naypidaw, la capitale fortezza creata dal nulla nel cuore della giungla sei anni fa, non è certo l’entusiasmo per le riforme. Nelle segrete del regime, dopo la strombazzata liberazione di 300 attivisti, languono più di mille prigionieri. Le elezioni dell’agosto 2010 sono state una ben organizzata finzione inscenata per consentire ai capi della giunta militare una discreta ritirata dietro le quinte e preparar l’avvento di una classe di potere meno compromessa. Ai quattro angoli del paese i militari continuano indisturbate le operazioni di pulizia etnica ai danni di Kachin, Karen, Shan e tutte le altre miriadi di minoranze che da sessant’anni reclamano qualche autonomia.
Agli orrori consueti di una guerra condotta bruciando villaggi e uccidendone o deportandone le popolazioni s’è aggiunto da qualche mese, come denuncia Human Right Watch, l’inedito orrore degli stupri di massa. Le violenze sistematiche contro le donne, iniziate nei territori dell’etnia Kachin, si sono progressivamente estese anche alle zone degli Shan e dei Karen facendo temere l’utilizzo su larga scala di quella che anche Aung San Suu Kyi definisce una «nuova arma da guerra».
Non a caso Hillary Clinton dopo aver stretto la mano al presidente Thein Sein e alla sua corte di ministri e generali ricorda che «anche un solo prigioniero politico è troppo».
Non a caso sottolinea che la Birmania è solo all’inizio di un lungo cammino. «Le misure attuate sono sicuramente senza precedenti e benvenute, ma sono solo il principio. Al momento non pensiamo certo di togliere le sanzioni perché permangono le preoccupazioni nei confronti di un processo politico che deve ancora cambiare».
Dunque che bisogno c’era di andare in Birmania? L’America non poteva incominciare con una visita di più basso profilo? Certo la cena di Hillary, immagine al femminile di Washington, con Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace e paladina della democrazia è altamente evocativa, ma basta a giustificare l’apertura? Forse no e allora a pensar male si rischia d’azzeccarci.
Ma anche sul fronte del cinismo politico le congetture si rivelano un salto fra due sponde opposte con un solo comune denominatore chiamato Cina.
Per alcuni il drammatico riavvicinamento è un contentino a Pechino. Secondo questa interpretazione il viaggio di Hillary non legittima solo i nuovi capi birmani, ma anche la grande madrina cinese accusata da due decenni di concedere protezione politica ai generali di Rangoon per sfruttare in regime di assoluto monopolio le immense ricchezze del paese.
Un monopolio esercitato saccheggiando gas, legnami pregiati e pietre preziose e ripagandoli con manodopera e manufatti di scarso valore. In cambio di questa indiretta legittimazione americana la Cina avrebbe garantito a Washington un via libera in ambito Onu all’intervento in Siria o a nuove durissime sanzioni all’Iran.
Secondo altre interpretazioni il vero motivo della visita è, invece, esattamente l’opposto. Aprendo le braccia alla Birmania e ai suoi generali gli Stati Uniti cercano nuovi spazi in Asia nel disperato tentativo di contenere l’inarrestabile e debordante potenza del grande nemico cinese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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