Torino - Si spengono le luci e l’aula diventa un set cinematografico. Sullo schermo scorrono le foto, oltre ogni immaginazione, di ciò che resta della testa di un bambino, ammazzato il 30 gennaio 2002 nella casa presepe di Cogne. Annamaria Franzoni e il marito Stefano escono un attimo prima. È troppo, per la mamma e il papà di Samuele. Paola Savio, il difensore d’ufficio pescato dal call center, si comporta come un consumato avvocato di fiducia. Non sfida i giudici, come il suo predecessore, Carlo Taormina, ma argomenta: «Non voglio il colpo di scena, ma le ferite sono il punto di partenza del crimine». Proprio così.
Il compito della penalista, arrivata ad un passo dalla sentenza, è mostrare i punti deboli dell’accusa. E lei per quattro ore procede fra ossicini, schizzi di sangue, materia cerebrale, brandeggio dell’arma. È la lezione di anatomia, l’indugiare sul dettaglio come piaceva ai grandi pittori fiamminghi del Seicento.
«Le ferite parlano - prosegue lei - la testa sanguinava, e sanguinava parecchio, le arterie zampillavano autonomamente». Parole terribili e dolorosissime, ma decisive per stabilire un primo punto: la geografia delle macchie di sangue presenti nella stanza del massacro dev’essere ripensata. Con conseguenze potenzialmente importanti su tutta la storia del delitto. «Sì, non ci sono solo gli schizzi provocati dai colpi e dal brandeggio dell’arma ma quelli prodotti da una terza fonte autonoma: le arterie. Il sangue in questi casi arriva assai lontano: un metro e mezzo, talvolta anche quattro metri».
Il professor Carlo Torre, il guru della difesa che si è esercitato per giorni e giorni con cadaveri, pentolini e scarponi, la ascolta attentissimo, pronto a intervenire come il suggeritore nella buca all’opera, ma non serve: la difesa avanza piano ma sicura. Dall’altra parte della sala, anche il sostituto procuratore generale, Vittorio Corsi, e il suo superconsulente Luciano Garofano, il colonnello del Ris, non perdono una battuta, così come il pubblico. Numerosissimo.
Solo il Presidente della corte d’assise d’appello Romano Pettenati, di solito misuratissimo, va su di giri e all’improvviso blocca l’arringa: «Finora la signora Franzoni ha fatto quello che ha voluto, è entrata, è uscita, ha fatto proclami. Io non tollero che stia nei servizi igienici che sono fatti per altro. E invece mi dicono che in questo momento è nei bagni». Passa qualche istante e la Franzoni e il marito rientrano, accoccolandosi sui gradini, subito dietro lo schermo, così da non vedere lo scempio del figlio. Una scena umiliante, comunque vada a finire questa storia.
L’arringa è già oltre: al pigiama, l’asso dell’accusa. «C’è un teorema, attacca, c’è una zona vuota, pulita, più o meno al centro del letto, e gli esperti interpellati dicono che lì, fermo, in ginocchio, c’era l’assassino. E indossava sicuramente i pantaloni del pigiama che infatti sono macchiati. Dunque l’assassino è la mamma». Il difensore prova a rovesciare quella lettura: «La scena del delitto è dinamica e non statica, perché l’assassino, nella posizione descritta avrebbe dovuto mantenere l’equilibrio come neanche un acrobata è capace. Ma se la scena è dinamica, allora la zona vuota si spiega proprio con la presenza del pigiama, buttato sul letto». E sullo schermo la penalista va a cercare due macchioline vicine all’elastico dei pantaloni: «Vedete, come mai il pigiama si è macchiato contemporaneamente dentro e fuori? L’assassino non lo indossava».
Per un attimo i due piani che hanno sempre fatto a pugni paiono marciare nella stessa direzione: la tecnicalità sposa il buonsenso. Come ha fatto una mamma a perdere il senno con quella furia bestiale e poi a ricomporsi in tempo per lo scuolabus dell’altro figlio, accompagnato per la manina? Già, i periti sparano altre certezze, calcoli matematici, equazioni insondabili per i profani che non indossano tute spaziali, non sanno cosa è il luminol e al massimo hanno visto Csi. E se la matematica del massacro fosse diversa?
«Lo scarpone col carrarmato - riprende lei - spiega molto meglio le macchie sulla parete e le ferite sul cranio di Samuele rispetto al pentolino o al mestolino ipotizzati dall’accusa. Lo scarpone, impugnato come un’arma, raccoglie, anzi intrappola sangue e materia cerebrale, e poi li irradia», innaffiando le pareti. E intanto mima il gesto tenendo saldamente nella mano un sabot valdostano. Poi lo depone e a sorpresa prende un mestolo di rame: «Vedete, è troppo molle, se viene battuto su una qualunque superficie si deforma». Non è finita: l’accusa ha detto che la Franzoni potrebbe aver usato un calzino, mai ritrovato, per nascondere il mestolo killer. «Vedete - prosegue implacabile - sto provando a far entrare il mestolo nel calzino ma è dura. Ah, ce l’ho fatta, ma una parte del manico è rimasta fuori». E il calzino? Dopo la scienza, un pizzico di civetteria: «Voi uomini avete tutte le scarpe uguali. Non come noi donne che ne compriamo a decine decidendo sempre all’ultimo istante quali mettere, abbinandole con calze, calzettoni, collant. Annamaria ha detto che non sa dove sia finito quel calzino. È normale: chi di voi apre l’armadio e trova sempre le calze regolarmente appaiate?». Due giudici popolari, due donne, sorridono. È la prima volta in un processo tesissimo.
La lezione di anatomia è finita: la Franzoni ha la testa fra le mani, il marito è un pupazzo inerte.
Paola Savio semina l’ultimo dubbio: «Ci sono almeno tre tracce trascurate, anzi dimenticate: una sulle scale, le altre due, la «I» e la «L», sul marciapiede esterno. Quelle tracce indicano la via fuga dell’assassino, alternativa alla non fuga della madre». Oggi la seconda parte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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