Col taglio degli aiuti si aguzza l’ingegno dei registi

Turi Vasile

La gente dello spettacolo è scesa recentemente in piazza contro il governo per i suoi progettati tagli a cinema, teatro, musica. In testa Roberto Benigni prendeva al volo l’occasione per promuovere il suo film in uscita; tra le quinte a tirare le fila era Citto Maselli, strenuo e interessato sostenitore dell’assistenzialismo statale. Seguiva, un po’ per inerzia un po’ per passione, la massa dei protestatori, felici quando possono gridare contro il governo ladro.
Per quanto riguarda il cinema, l’impressione era che tutti agissero come dipendenti dalla droga delle sovvenzioni governative elargite, nel tempo, da Veltroni, Melandri e Urbani, ministri della Cultura. Ho qui sotto gli occhi l’elenco dei film finanziati dal Comitato per il credito cinematografico nell’ultimo decennio. Leggo cifre da capogiro, assegnate più alle intenzioni (le sceneggiature) che ai risultati (le opere compiute) applicando un criterio misto, automatico da un lato e basato sul giudizio di merito dall’altro. La maggior parte di quei film ha raccolto incassi irrisori; altri non sono addirittura usciti. Nonostante i previsti meccanismi di una restituzione parziale delle sovvenzioni ricevute, in complesso si è trattato di un colossale investimento a fondo perduto di denaro pubblico. Non c’è stata, purtroppo, la consolazione, da tanto spreco, di un pieno risveglio artistico della nostra cinematografia; essa ha perso l’originalità che un tempo la distingueva; non vince ai festival; e, tranne rare eccezioni, non varca i confini. La sua produzione è divisa tra le farse dell’antica tradizione italica dei fescennini che vince solo al botteghino e la rappresentazione di trasgressioni a porte chiuse senza Sartre, senza cioè autentica approfondita angoscia e il grigiore borghese di sentimenti e passioni gabellate per progressismo.
L’inquinamento di un cinema che fu grande nasce dal famigerato articolo 28, che incoraggiò improvvisamente con sovvenzioni a tappeto il dilettantismo e promosse registi e autori impreparati e incolti. Da qui nacque la dipendenza a cui ho accennato, l’assuefazione, come se il cinema non potesse più farsi al di fuori dell’aiuto dello Stato.
A questo punto, per evitare... coraggiosamente linciaggi oltre che per radicata convinzione, preferisco rifugiarmi dietro le affermazioni di Suso Cecchi d’Amico, signora del cinema italiano al di sopra di ogni sospetto per riconosciuta indipendenza e autorità di giudizio: «... Per far rinascere il cinema italiano in un momento così poco interessante e così poco creativo, l’ideale sarebbe azzerare tutto. Niente finanziamenti statali, nessun aiuto obbligato, nessuna concessione da parte del sistema politico, comunale o governativo. È l’unica strada percorribile per dare la possibilità a chi ha davvero delle buone idee e dei buoni progetti di vederli realizzati. C’è troppo cinema... Noioso, ripetitivo, privo di senso. Decine di autori e di registi ottengono dal ministero l’aiutino, parola orribile che però dà il senso della miseria generale, a prescindere dalla qualità». (Corriere della sera dell’8 ottobre scorso).
La memoria torna alla risurrezione del cinema italiano dalle macerie in tutti i sensi della guerra. Fu un inizio sofferto, ostinato, povero di mezzi e ricco di fantasie, che seppe fare di necessità virtù.

Suso Cecchi d’Amico ha ragione a indicare la via stretta che aguzza l’ingegno e che restituisce il rischio del gioco, come ai tempi migliori della nostra avventura cinematografica.

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