Al collega sessantottino non gliela dai a bere

L’altro ieri tutti i giornali italiani hanno dato notizia dell’incidente nucleare in Slovenia mettendo bene in risalto, già nel titolo, le rassicurazioni dell’Unione europea e di tutti gli esperti possibili e immaginabili. Si diceva che c’era stato un guasto ma si precisava: non c’è stata fuoriuscita di radiazioni, nessun rischio per l’ambiente e per le persone.
Così, dicevamo, hanno titolato tutti i giornali italiani. In realtà, tutti meno uno. Liberazione, il «giornale comunista», ha infatti aperto la prima pagina con il seguente titolo: «Allarme nucleare in Slovenia. “Nessun rischio”. Chi ci crede?». È chiaro l’intento di polemizzare con il governo Berlusconi, che ha riaperto le porte al nucleare. Ma al di là di questo scopo contingente, il titolo di Liberazione rivela ciò che resta di un certo modo di fare giornalismo, nato nel mitico Sessantotto. È il giornalismo della cosiddetta «controinformazione», che si fondava su un assunto: ciò che dicono le autorità costituite - siano esse la magistratura o la polizia, la scuola o la politica, l’esercito o la Chiesa - è una balla a prescindere.
Va detto per onestà che un simile giornalismo ha storicamente avuto anche qualche merito. È vero, infatti, che per decenni la nostra categoria aveva seguito l’abitudine di prendere per Verbo incarnato tutto ciò che veniva dal Palazzo, e di questa abitudine il Palazzo aveva finito con l’approfittarsene. I cronisti annotavano fedelmente sui propri taccuini tutto ciò che il maresciallo, o il giudice, o il preside, riferiva; e poi, riportavano tutto al lettore. Fu con la strage di piazza Fontana che la «nera» svoltò: comunque la si pensi su quei fatti, non c’è dubbio che si scoprì ben presto che le versioni ufficiali nascondevano molte verità inconfessabili; e questa scoperta «fu uno choc per noi vecchi giornalisti», confessò un grande cronista come Arnaldo Giuliani del Corriere, certamente insospettabile di simpatie sessantottine.
Ma se fu salutare l’aver introdotto una certa diffidenza nei confronti delle veline, ben presto si passò da un estremo all’altro, per cui si stabilì il nefasto principio secondo il quale «dietro» le versioni ufficiali deve sempre esserci chissà cosa.

Proliferarono così legioni di cronisti «pistaroli», che andavano ben oltre il dovere della verifica e del controllo, e finivano con l’insinuare il dubbio sistematico, la sfiducia, la diffidenza. Insomma un giornalismo fatto di pregiudizi, del quale non poco è rimasto ai nostri giorni, e che a volte scatta automatico, come in quel «Chi ci crede?» dell’altro ieri.

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