La prima morte in diretta risale al 22 gennaio 1987, quando Budd Dwyer, funzionario del dipartimento del Tesoro dello Stato della Pennsylvania, accusato di corruzione e frode, si sparò in bocca durante una conferenza stampa in diretta televisiva. Ma si trattò di un caso, oltreché di una tragedia. Da allora di strada ne è stata fatta tanta, e oggi BattleCam, una tv che trasmette sul web, ventiquattr’ore al giorno, la «realtà» senz’altri aggettivi, può annunciare fiera che manderà in diretta da una clinica svizzera il suicidio assistito di Nikolai Ivanisovich, malato terminale di cancro al cervello. Grazie ai diritti della trasmissione, ha spiegato Ivanisovich, «la mia famiglia potrà vivere in prosperità dopo la mia morte».
Vi sono nel mondo popolazioni - noi diciamo «primitive» - che rifiutano di essere fotografate per timore di perdere l’anima. Sebbene si tratti evidentemente di una sciocchezza, quei popoli hanno ragione. La nostra immagine, staccata da noi, piano piano ci consuma, ci svuota, ci sterilizza. La «reality-tv» non racconta la realtà, ma ne costruisce una del tutto artificiale che obbedisce soltanto alle regole dello spettacolo. E nello spettacolo, fin dai tempi di Eschilo, c’è la morte.
Il furto d’anima che gli uomini civilizzati hanno subito, a forza di farsi riprendere, fotografare e trasmettere, ci impedisce oggi non soltanto di distinguere il telegiornale dalla fiction, ma anche il limite dal suo oltrepassamento. Lasciamo da parte la morale: la televisione (come la politica) non ha al proprio interno categorie di questo tipo. Qualcuno sosterrà che in questo modo si aiuta la battaglia civile per il suicidio assistito, altri che proprio per questo motivo quel programma è vergognoso; ma la web tv che lo trasmetterà, di proprietà del miliardario inglese di origine greca Alki David, non si occupa né di diritti civili né di cura delle anime né di politica. Si occupa esclusivamente di generare profitti attraverso lo spettacolo. È per questo che non si ferma mai, neppure di fronte alla morte. Del resto, non morivano forse in diretta i gladiatori nel Colosseo?
Nell’aprile del ’98, a Los Angeles, dopo un’ora di inutili trattative con la polizia un uomo si dà fuoco, si punta un fucile alla gola e si uccide mentre dagli elicotteri le telecamere trasmettono in diretta l’intera sequenza, in ogni dettaglio. Erano le tre del pomeriggio. Allora ci fu un’ondata di proteste, e le emittenti si scusarono pubblicamente. Oggi forse avremmo un comunicato di qualche comitato di genitori, e il solito dibattito nauseante sul diritto di cronaca.
Qualcosa di delicato (perché indefinibile) sembra essersi rotto, e non sappiamo più distinguere che cosa si può vedere e che cosa invece no. Quel metro di misura interiore e condiviso, che un tempo si chiamava «comune senso del pudore», non funziona più. Anziché evolversi e modificarsi, com’è naturale che sia, s’è dissolto. La nostra spudoratezza non c’entra nulla con la libertà, perché è passiva, inerziale. Ad ogni obiezione rispondiamo infastiditi: «Che male c’è?». E chi fa la tv si difende invocando la maturità del pubblico.
È vero: in una società libera soltanto il mercato decide chi vince e chi perde; la censura, come il protezionismo o i contributi statali alle aziende in crisi, è una turbativa del mercato, e dunque della libertà.
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