Politica

Il colpo del picconatore a D’Alema

Francesco Cossiga, presidente emerito, rompe con il ministro degli Esteri Massimo D’Alema e anzi lo scomunica con scherno come soltanto lui sa fare quando viene deluso nei rapporti politici e personali, e lo scarica. Motivo della rottura? Le parole che D’Alema ha pronunciato su Israele e che Cossiga considera semplicemente «infami».
Ma c’è di più: sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero Cossiga voterà contro e lo farà dopo aver pronunciato un duro atto d’accusa contro il ministro degli Esteri definendolo «il Chamberlain italiano che si dà arie da Winston Churchill».
Per chi non ricorda, Chamberlain fu il primo ministro inglese che a Monaco il 29 settembre 1938 cedette ai ricatti di Hitler e che Winston Churchill marchiò con infamia: «Avete cercato la pace con il disonore e avrete sia la guerra che il disonore». E Cossiga spiega il paragone così: «Non potendo più ispirarsi a Mosca, dove gente con i coglioni risponde alla guerriglia cecena col pugno di ferro, D’Alema fa il Chamberlain italiano trattando con Damasco e con Teheran». E quanto al suo annunciato voto negativo in Senato dice: «Io voterò da posizioni di destra e non di sinistra contro le missioni di pace, perché non sono per la pace ma per la guerra». Dunque il governo Prodi non soltanto perde un voto in Senato, ma perde anche un attivo sostenitore che diventa nemico acerrimo.
L’importanza politica di questo evento non ha bisogno di essere sottolineata: Cossiga non è soltanto uno dei senatori a vita che finora hanno garantito un margine di sopravvivenza alla maggioranza, ma l’uomo che ha sempre considerato lo sdoganamento del Partito comunista italiano come una operazione personale, anche per il desiderio (otto anni fa) di battere sul tempo Eugenio Scalfari nella stessa operazione.
Le notizie che sto riferendo sono frutto di un mio colloquio con il presidente Cossiga avvenuto ieri mattina e le parole che ho riferito sono testuali. D’altra parte, non dimentichiamolo, il motivo per cui Cossiga assunse nel 1998 (sessanta anni dopo la conferenza di Monaco) D’Alema nel suo empireo e lo trasportò velocemente e felicemente a Palazzo Chigi (la famosa «unica merchant bank del mondo in cui non si parli inglese») fu anch’esso un motivo militare e di politica estera: l’amministrazione americana di Bill Clinton aveva bisogno di poter usare le basi militari italiane, quella di Aviano prima di tutto, in modo sicuro per poter bombardare quotidianamente la Serbia e Belgrado, avendo la garanzia dal vero leader dell’ex Partito comunista che pacifisti e no-global fossero ridotti al silenzio in posizioni del tutto marginali e non rendessero precarie le procedure militari.
Fausto Bertinotti ricavò per sé, da quella operazione, la titolarità di leader unico dell’estrema sinistra che si chiama fuori senza fare troppo chiasso, anzi non facendone affatto. È a causa di questi trascorsi che D’Alema, come ministro degli Esteri del governo Prodi, ha avuto il gradimento della Casa Bianca dove il suo curriculum esalta il titolo di «alleato fedele e indispensabile» conquistato durante la guerra del Kosovo, quando i nostri aerei macellavano esseri umani nel silenzio generale e senza alcun mandato dell’Onu, altro che Irak.
Ma dopo le sue uscite su Israele e la posizione assunta sul Medio Oriente non è difficile immaginare fino a che punto le quotazioni di D’Alema siano precipitate al di là dell’Oceano malgrado i sorrisi diplomatici di Condoleezza Rice, circostanza che contribuisce a spiegare l’atto di scomunica di Cossiga.
Il picconatore ha assestato dunque al governo una picconata che potrebbe rivelarsi mortale per l’inesistente maggioranza al Senato: termina così per Prodi la fase dei giorni difficili e comincia quella dei giorni impossibili.
p.

guzzanti@mclink.it

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