Colpo di Stato in Honduras: Chavez minaccia l’invasione

I primi a offrirgli il loro supporto sono stati Fidel Castro e Chavez, in nome della comune militanza in Alba, il gruppo dei leader di sinistra del centro-sud America. Quando Manuel Zelaya, il presidente dell'Honduras, è stato arrestato dai militari nella sua abitazione della capitale dello Stato centroamericano, Tegucigalpa, e scortato a una base militare da dove è stato spedito in Costarica, una giornata di consultazioni referendarie si è trasformata in un colpo di Stato. Poche ore prima che gli honduregni si esprimessero in un referendum consultivo (che la Corte suprema aveva dichiarato anticostituzionale), per esprimere la loro opinione sulla possibilità o meno di Zelaya di ricandidarsi a fine mandato, i militari hanno deciso di agire e, alle sei della mattina, hanno prelevato il presidente e l'hanno espulso. Contro il referendum si erano schierati non solo la Corte e l'esercito, con cui il presidente aveva recentemente avuto pesanti frizioni, ma anche il Parlamento. L’Assemblea ha nominato successore il suo presidente, Roberto Micheletti. Il voto è avvenuto per alzata di mano. La risposta di Zelaya al golpe non si è fatta attendere: da San José, capitale del Costarica, ha convocato le tv, la Cnn e Telesur, emittente con base a Caracas vicina al presidente venezuelano Chavez, e ha chiesto a Barack Obama se «si trovi dietro a tutto ciò. Se (Washington) non dà il suo sostegno a questo colpo di Stato, allora potrà impedire questo attacco contro il nostro popolo e la nostra democrazia», ha ammonito Zelaya. A fargli eco è arrivato subito l'amico Chavez che ha puntato il dito contro gli Usa, accusando Washington di essere coinvolta nel «colpo di Stato» in Honduras. Parlando a Caracas, Chavez ha chiesto un intervento di Obama, sostenendo che «l'impero degli yankee ha molto a che fare» con gli ultimi sviluppi nel Paese del centro-America. Poche ore dopo, in seguito all’elezione di Micheletti da Washington è arrivato sostegno al leader deposto: «Manuel Zelaya è l’unico capo di Stato legittimo riconosciuto dagli Stati Uniti», ha detto un alto responsabile del governo americano.
A Zelaya è arrivata la solidarietà di tutto il mondo, che ha condannato il golpe dei militari: se il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha espresso «grande preoccupazione» per gli avvenimenti accaduti in Honduras, anche l'Unione europea ha condannato l'arresto del presidente, aggiungendo che «l’atto rappresenta una violazione inaccettabile dell'ordine costituzionale». Una dura condanna, nonostante le accuse di Zelaya e Chavez, è arrivata anche da Washington: Obama si è detto «profondamente preoccupato» e ha invitato «tutti gli attori politici e sociali in Honduras a rispettare le norme democratiche». Una posizione condivisa e rilanciata anche dal segretario di Stato Hillary Clinton: «Le azioni compiute contro il presidente dell'Honduras violano i principi democratici», ha tuonato l'ex first lady.
Zelaya da parte sua ha rivolto l’appello ai suoi concittadini di manifestare contro il colpo di Stato «pacificamente, senza violenza» e chiesto a «tutti i settori» della società di pronunciarsi contro il putsch. «Gli autori del colpo di Stato rimarranno soli e usciranno pieni di vergogna da questa vicenda», ha proseguito Zelaya. «Hanno mitragliato la mia casa, spero non ci siano stati feriti», ha poi detto il presidente raccontando il rapimento. «La mia guardia d'onore ha opposto resistenza, sono stato svegliato dagli spari e dalle urla. Sono entrati sparando, e ho dovuto proteggermi dai colpi».

Secondo quanto hanno poi raccontato diversi testimoni, davanti al palazzo presidenziale si sono raccolti 500 manifestanti che sono stati dispersi con i lacrimogeni, mentre i mezzi blindati venivano schierati in tutta la capitale. «In nessun modo potrà essere accettato un governo usurpatore» ha concluso Zelaya.

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