Il socio di Vallanzasca che si è arreso soltanto alla mamma

Rossano Cochis era un boss della malavita lombarda: "A quella donnina di 84 anni ho promesso che col passato ho chiuso". Ora aiuta i tossicodipendenti

Il socio di Vallanzasca che si è arreso soltanto alla mamma

Alla fine, lui che non si era mai arreso, ha alzato le mani davanti una signora minuta di 84 anni. «Ho capito che la mamma sarebbe morta di crepacuore se non le avessi dato il segnale che la mia vita precedente era finita e che non avrei più fatto nulla di male». Rossano Cochis è una sorta di romanzo vivente della malavita lombarda e non solo del Dopoguerra. Membro di rango della banda Vallanzasca, autore di un numero incalcolabile di imprese criminali, condannato per omicidio e sequestro di persona, ha appena finito di scontare un ergastolo. «Sono entrato in galera il 15 febbraio 1977 e sono uscito a luglio. Dopo 37 anni. Ma prima di varcare la soglia ho fatto quella promessa a mia mamma Bruna: “Stai tranquilla, non tornerò con i vecchi giri, con quella vita ho chiuso per sempre. Non voglio perderti e non voglio rovinare il mio matrimonio con una donna molto più giovane e innamorata di me”». Cochis, 67 anni portati con una certa baldanza e un fisico che ricorda i trascorsi giovanili da paracadutista, tira fuori dal taschino la foto di una bella ragazza che sorride alle promesse dell'avvenire. L'ex bandito guarda quasi divertito quel talismano, poi lo ripone con cura nel portafoglio. «Lo so quello che pensa - previene rapido la domanda - lei si chiede chi gliel'abbia fatto fare a Paola. La rassicuro: è felice, è gelosissima, stiamo trovando un discreto equilibrio».

Pare impossibile. La prima vita è un gorgo senza fondo che lo ghermisce ancora ragazzo, fra il '71 e il '72. «Facevo il rappresentante e abitavo a Carpenedolo, in provincia di Brescia, il mio paese. Un amico mi propone un colpo alla banca del paese vicino; Rubiano. È stato tutto facile, facilissimo, la rapina mi è venuta naturale. Però ero emozionato e l'emozione mi ha giocato uno scherzetto: mi scappava la pipì. Forte. Fortissimo. Prima e durante la rapina. Appena è finita e abbiamo messo in salvo i soldi, sono tornato davanti alla banca e mi sono mescolato ai curiosi. “Che è successo? Eh, questi delinquenti”. Io conoscevo un po' tutti per il mio mestiere e non ho avuto difficoltà a raccogliere le chiacchiere della gente e pure le prime impressioni dei carabinieri. Quaranta e passa anni dopo posso confessare. Tanto non mi fanno più niente. Sono io l'autore di quel colpo». Quasi un rodaggio sulla strada della cronaca nera. Ad un certo punto Rossano conosce Roberto Vallanzasca, fratello di Renato, e il cerchio si chiude. «Guardi, tanto per cominciare, il termine banda era improprio. C'erano tante batterie che si erano unite, non c'erano gerarchie, il mito di Renato l'avete creato voi giornalisti. C'era semmai un mix di spavalderia, coraggio, incoscienza. Mi alzavo la mattina e senza tante strategie decidevo il da farsi. Un giorno, ce l'ho ben presente, ho fatto tre rapine nell'arco di un paio d'ore. Tutte nell'hinterland milanese, fra Peschiera Borromeo e Pantigliate. A noi andava bene quella vita alla giornata. Un pomeriggio sono nel letto matrimoniale con Renato, in mezzo una bellissima donna, quando lui mi dice: “Guarda qua”. Vallanzasca ha fra le mani il Corriere d'informazione e mi mostra subito una foto della bellissima villa della famiglia Trapani a Milano, vicino all'ippodromo. In un secondo nasce l'idea. L'articolo del quotidiano è ghiotto per noi. Si parla di lui che vuole comprare l'Inter, della moglie, delle figlie di cui si fanno anche i nomi. Telefoniamo subito: “Pronto, buonasera, c'è Emanuela?”».

Una voce ingenua fornisce al duo le informazioni che ancora mancano. Emanuela è a sciare, ma tornerà la domenica sera. Vallanzasca e Cochis prendono nota e ringraziano. Una settimana dopo la ragazza viene portata via. Il sequestro prende poi una piega rosa perché la giovane prigioniera s'innamora del suo carceriere e vive una storia d'amore con Vallanzasca. «Io le ho insegnato a condire l'insalata con il limone», s'illumina Cochis esibendo a sorpresa un sorriso dolcissimo. Alla fine il riscatto, un miliardo tondo, viene pagato e Emanuela viene liberata. Eravamo in quattro: io, Renato e Mario Carluccio siamo stati presi, l'ultimo no. Il nome? No, non lo farò, non è mai uscito, è libero e non voglio rovinarlo. Io non faccio la spia».

Semmai Cochis parla volentieri del bottino. Spartito e sparito. Sì, proprio così: «Ci siamo divisi il miliardo in quattro parti uguali, i miei 250 milioni li ho dati a mia mamma che li ha portati da un promotore finanziario. Risultato: si sono volatilizzati. Un giorno l'ho incontrato in carcere e gli ho detto solo: “Quando uscirò ti ucciderò con le mie mani”. Si è impiccato per i fatti suoi».

Cochis risponde al cellulare: «Sì, ci vediamo domani». Mette giù e spiega: «È un tossico. Ho lavorato in questi mesi per la cooperativa il Gabbiano. Seguivo i tossicodipendenti fuori dal perimetro della comunità. In ufficio, a fare gli esami del sangue, in tribunale per i processi. Un'occupazione faticosa e di responsabilità. Dare consigli, fornire loro informazioni pratiche, accompagnarli quando si aggirano smarriti in ambienti che non padroneggiano. In sostanza, facevo un lavoro che mi piace. E qualche volta ho garantito davanti ai giudici. Sì, lo so, è curioso che proprio io abbia svolto questa funzione, adesso sono in stand by , ma spero di riprendere in questo campo al più presto. I giudici parlano con me e raramente mi riconoscono. Non sanno che cammino anch'io sul filo del rasoio. Sono in libertà condizionale. Devo rientrare a casa entro le 23 e non posso uscire prima delle 7 del mattino. Non un grande problema quando sei stato per una vita in cella. E hai fatto il giro di quasi tutte le carceri d'Italia. San Vittore, Opera, Bergamo, Voghera, Rebibbia, Regina Coeli, La Spezia».

Cochis s'illumina: «Da La Spezia sono scappato con altri due amici nel più classico dei modi: seghetto e lenzuola». I banditi capeggiati da Vallanzasca sembrano invincibili. Se la spassano. Fra un colpo e l'altro. Poi però vengono incastrati e la giustizia presenta il conto. Salatissimo: «Io ne ho fatte di tutti i colori, ma non ho mai ucciso e invece l'ergastolo l'ho beccato per la morte di un bancario ad Andria che non è morto per mano mia. Io non c'entro. Né io né Renato che ha preso il carcere a vita con me».

Il cellulare squilla distribuendo note allegre e colorate nello studio austero dell'avvocato Ermanno Gorpia, il legale di Cochis. «È la figlia di mia moglie, è bello avere famiglia, fra di noi c'è un ottimo rapporto.

Se avessi avuto dei figli miei non mi sarei spinto così in là, ma non li avevo, non c'erano legami da rispettare, tranne quello con mia mamma. È andata così». E stringe la mano congedandosi con una frase secca come una fucilata: «Non ho rimpianti, tranne uno, ho buttato via la mia vita».

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