La comicità dell’assurdo? L’ha inventata Thackeray

La comicità inglese è mordente e dissacrante. Vive di assurdo, di non sense. A differenza di quella italiana non vive di politica, anzi. Non che non colpisca il potente o il ministro, ma difficilmente lo fa con logica di fazione. Quello che conta è cogliere il paradosso. E se nella contemporaneità questa forma comica si è spostata sul piccolo e sul grande schermo - basti citare i Monty Python (gente che per far ridere ha studiato a Oxford e Cambridge) o Sacha Baron Cohen - le origini sono assolutamente librarie, coltissime.
A partire da quella vera fucina della risata a denti stretti che sin dall’Ottocento è stata la rivista Punch, fondata il 17 luglio 1841 da Henry Mayhew e dall’incisore Ebenezer Landells. Il nome Punch era un omaggio alla maschera omonima del teatro dei burattini di Punch e Judy (una versione clownesca, ma anche malvagia, dell’italianissimo Pulcinella); allo stesso tempo, era legato a un gioco di parole sulla bevanda omonima. Le copertine dei primi numeri, disegnate da Archibald Henning, riportavano il sottotitolo The London Charivari, con riferimento alla rivista satirica francese Le Charivari, e all’antico uso medievale di far rumore di notte sotto le case degli antipatici o dei potenti boriosi. Una delle penne più importanti che si formarono lavorando in quella redazione e che ha contribuito a forgiare l’umorismo di una nazione è William M. Thackeray (Calcutta, 1811 – Londra, 1863), il padre di Vanity Fair e di Le Memorie di Barry Lindon. Ora arriva in Italia, «riscoperto» e tradotto nella nostra lingua, uno dei suoi romanzi brevi, che spesso venivano pubblicati a puntate nel periodo natalizio: Rebecca e Rowena (Robin, pagg. 134, euro 10). Scritto tra il 1849 e il 1850 il romanzo è una continuazione goliardica di Ivanhoe di Walter Scott, pensata per ribaltare l’andamento moraleggiante e filosassone del romanzone storico più caro all’Inghilterra vittoriana. Tutto a partire da un sentimento, condiviso da molti dei lettori ma davvero sovversivo per l’epoca di The Rule Britannia. Ecco infatti cosa scriveva già nel 1846 sulla rivista Fraser’s Magazine: «Sono cresciuto amando Rebecca, tra le più dolci creature nate dall’immaginazione del poeta, e desidero che le sia fatta giustizia».
E cosi ecco nascere un sequel tutto da ridere in cui Rowena diventa una moglie tirannica e inacidita che perseguita un cavaliere non più senza macchia e molto invecchiato. Non bastasse gli rinfaccia costantemente il fatto di aver toccato il cuore di una ebrea («razza di miserabili disgraziati! L’Inghilterra non potrà mai essere un paese felice finché non saranno tutti eliminati»). Una persecuzione che spinge un Ivanhoe, invecchiatello, a seguire il grassissimo Re Riccardo nelle sue scaramucce francesi lasciando la sua dama in patria in compagnia di un sin troppo protettivo Athelstane. Risultato finale? Ivanhoe ferito nel corso di un assedio, durante il quale l’Iracondo Re Riccardo quando non massacra e stermina si ingozza come Pantagruel, viene dato per morto. Lo salva il comico Wamba, ma quando torna in Inghilterra travestito da monaco scopre che Athelstane ha ormai sposato l’ex bella Rowena. E i due hanno pure sfornato un bel pupo.
Non bastasse scoppia la guerra civile. Ecco che allora dopo un altro bel po’ di ammazzamenti (Rowena morirà in carcere) il cavaliere va a fare a brandelli i mori in Spagna, diventando una sorta di tritacarne umano, e finalmente si decide a cercare la bella Rebecca. Così che nel finale arriva il matrimonio. Ma nello stile burlone e sardonico di Thackeray non è proprio un happy ending: «Ma non credo che ebbero altri figli né che nel proseguo furono felici in modo esagerato. La malinconia è la caratteristica di alcuni tipi di felicità: penso quindi che rimasero una coppia solenne, e che morirono abbastanza presto».
Ma al di là della trama quel che conta è l’ordito. Davvero leggendo si capisce come Thackeray sia il maestro dell’assurdo che ha insegnato ai Monty Python. Ecco solo qualche esempio (altri ne troverete nel breve brano che pubblichiamo in pagina) delle situazioni surreali che inanella: Benjamin Disraeli è tra i pretendenti di Rebecca, Ivanhoe legge il giornale, fuma i sigari e mangiai Muffins, i cattivi finiscono alla colonia penale di Botany Bay. Quanto ai personaggi secondari sono a metà tra La Secchia Rapita di Tassoni e le comiche di Benny Hill: il gran Maestro dei cavalieri di San Giovanni Folko de Heydenbraten (Friggipagani), o la contessa Kartoffelberg (Montagna di Patate) nobildonna passattella che fa il filo al cavaliere passatello. Insomma quello costruito sopra all’opera di Walter Scott è una sorta di romanzo al quadrato dove tutto è ironia e follia tranne i sentimenti umani ben incarnati dal buffone Wamba che, essendo un buffone, è l’unico personaggio serio. Ecco il suo monito al lettore e ad Ivanohe: «Ci son uomini morti che son vivi e uomini vivi che son morti.

Ci sono funerali in cui si ride e nozze in cui si piange». Tanto di capello l’umorismo di una nazione è tutto qui, concentrato in questo limbo fantastico incastrato tra il dialogo di Amleto con il teschio di Yorick - altro buffone - e Tre matrimoni e un funerale.

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