Il comico inizio di un governo dal volto triste

Francesco Damato

Non per infierire ma per pura e crescente curiosità, torno a pormi la domanda della settimana scorsa: basterà il Bagaglino a soddisfare le potenzialità comiche di Romano Prodi quando la coalizione di governo gli esploderà fra le mani, anzi fra i piedi, e neppure una super-seduta spiritica gli risparmierà un altro sfratto anticipato da Palazzo Chigi? D’altronde, sulle prospettive di tenuta politica del Professore crescono i dubbi anche fra quanti si sono maggiormente spesi per aiutarlo a vincere le elezioni d’aprile, sia pure per il rotto della cuffia e tra mille sospetti di irregolarità, se non si vuole parlare di imbrogli, come forse sarebbe più opportuno.
Senza ripetere i duri giudizi di Eugenio Scalfari e di Claudio Rinaldi giustamente riproposti in questi giorni ai nostri lettori da Paolo Del Debbio e da Luca Telese, vorrei ricordare l’aggettivo «indecente» usato nei riguardi delle scelte e della condotta del nuovo governo sin dalle prime battute da Emanuele Macaluso. Il quale ha avuto facile gioco, dopo la nomina di altri tre sottosegretari, a ribadirlo in polemica con il suo compagno Piero Fassino, che gli aveva dato dell’«ingeneroso» e del «vecchio». In effetti Macaluso ha più di ottant’anni, peraltro molto ben portati, nel fisico e nella mente. Ma forse Fassino ritiene compatibili vecchiaia, lucidità e generosità solo se si è senatori a vita e si accetta l’ingrato compito di tenere a galla un governo come quello di Prodi sui traballanti numeri di Palazzo Madama.
Il segretario dei Ds, con una vocazione alla comicità irresistibile quanto quella del presidente del Consiglio, è fra i pochi che continuano a ritenere che il nuovo governo, affollato di ben 102 esponenti, molti dei quali impegnati ogni giorno a contraddirsi e a contendersi incerte competenze, sia «partito bene». In verità, egli ha ritenuto opportuno aggiungere: «Direi». Ma non può certamente essere il ricorso al condizionale a rendere meno comico il giudizio di chi è pur sempre alla guida del maggiore partito della variopinta coalizione prodiana, per quanto consigliato da Massimo D’Alema, con i modi delicati che gli sono abituali, a rimanere fuori dallo squadrone ministeriale.
In un sussulto involontario di consapevolezza, stando almeno alle cronache non smentite di una riunione svoltasi qualche giorno fa a Palazzo Chigi, Prodi si è «affacciato» all’incontro del suo portavoce con gli omologhi dei ministri e vice ministri per raccomandare di «sorridere di più». Ne avranno sicuramente motivo di fronte ai suoi quotidiani infortuni in Italia e purtroppo anche all’estero, dove non sfuggono, fra l’altro, i pesanti condizionamenti che egli deve subire dalle componenti tanto dichiaratamente quanto anacronisticamente comuniste, vista la fine ingloriosa del comunismo.
«Vedrete, Bertinotti ubbidirà», disse Prodi a Porta a Porta prima delle elezioni contestando l’immagine di Prodinotti profeticamente coniata dai suoi avversari. Si è visto come abbia poi ubbidito Bertinotti reclamando e ottenendo, per cominciare, la presidenza della Camera.

Più recentemente Prodi, intervistato da due giornalisti tedeschi, gli ha dato del «folcloristico» e dell’«innocuo» in una esibizione verbale di forza che ha dovuto rapidamente rimangiarsi nelle parole e nei fatti - dall’economia all’Irak - coprendosi ancor più di ridicolo.

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