«Nel 2008 compirò 12 anni». Il segreto di Carlo Pastori, clown, attore, cabarettista, musicista, cantante, ballerino, fisarmonicista che ho rintracciato a Nauders, Austria, in un hotel dove i proprietari escludevano che fosse mai arrivato, è tutto qui: essendo nato il 29 febbraio del 1960 bisesto, ma nel suo caso nient’affatto funesto, festeggia ogni quattro anni e dunque ha trovato il modo di preservare per l’eternità il bambino che è in lui, quello che fra i tanti morti contati da Georges Bernanos nella propria vita appariva allo scrittore francese il più morto di tutti, e invece a Pastori, e alla famiglia di Pastori, e agli amici di Pastori, e al pubblico di Pastori si presenta ogni giorno vivace, impertinente, felice.
Dopo Claudio Bisio, Maurizio Crozza, Paolo Cevoli, Sergio Sgrilli e Roberto Ciufoli della Premiata ditta, un altro pelato», si descrive con modestia. Di Bisio, in particolare, è il sosia quasi perfetto («in meglio»). Stavano insieme in televisione nel cast di Zelig, e con loro Flavio Oreglio e Ale & Franz. I Martesana in corpore sano, s’erano ribattezzati. Audience, successo, soldi, starlet, la gente che ti ferma per strada («la domanda più cretina che mi sentivo porre in quel periodo era: “Com’è dal vivo Michelle Hunziker?”, e come vuoi che sia la Hunziker, sei cieco?»). Ma poi questo milanese calvo che aveva proposto di chiamare provocatoriamente Family pride il Family day, e il 12 maggio era sul palco a intrattenere il milione di manifestanti radunati in piazza San Giovanni a Roma, s’è ricordato della sua vera natura – «un pagliaccio di strada, è così che nasco» – e ha deciso di diventare cantastorie, di dedicarsi anima e corpo soltanto ai bambini. Senza per questo rinunciare allo spirito del cabaret: uno dei suoi spettacoli s’intitola W la fisa!, «è bella la fisa, è comoda, in scena mi serve anche da sedia, se avessi scelto il flauto mica potevo sedermici sopra».
Una prima sterzata alla sua vita l’aveva già data nel 1987, quando gli nacque il primogenito, Giacomo, e con Bano Ferrari e Roberto Abbiati fondò il Teatro d’artificio, una compagnia di clown, per non restare senza copioni quando poi si sarebbe trovato a far ridere Giovanni, Elia e Martino, gli altri tre figli arrivati subito dopo, il più piccolo oggi dodicenne. Fino ad allora era stato in J. Walter Thompson, agenzia di pubblicità tra le più note al mondo, coordinatore del reparto creativo dal quale uscirono campagne come «Un diamante è per sempre» per De Beers, «Ciribiribin Kodak» con l’alieno nano e gli spot di Beppe Grillo per Yomo. D’inventiva ne ha sempre avuta da vendere, e lo attesta la foto con la maglia dell’Inter sulla carta d’identità («una fede, come Peppino Prisco diventerò milanista in punto di morte, così schiatterà uno di loro»).
Un giorno ha preso la moglie Patrizia Barbati, insegnante elementare, e i quattro figli e li ha portati via da Milano, a vivere nell’unico luogo dove gli pareva che fosse possibile ritagliarsi uno scampolo di pace, a Treviglio, il paese dell’Albero degli zoccoli, «cercavo qualcosa che mi ricordasse i tre mesi d’estate della mia infanzia scalza a Malonno, in Valcamonica», lui che era cresciuto giocando da solo in un condominio di via Porpora, zona Loreto, e a 17 anni perse il padre e fu costretto a lavorare di giorno e studiare di sera per mantenere la madre e i due fratelli più piccoli. Ha ancora nelle narici il profumo di dopobarba del papà melomane che si prepara per andare alla Scala con gli Amici del loggione.
Com’è diventato attore?
«Fine della quinta elementare. La mia classe vince un premio per la rappresentazione teatrale I misteri pasquali. Il maestro Guerino Pesaola, zio del Petisso, l’allenatore, sceglie l’alunno che dovrà ritirare il riconoscimento all’Arengario. Scrive i nostri nomi su dei foglietti e li mette dentro il cappello. Ero certissimo che avrebbe pescato il mio. Alla premiazione chiesero ai genitori: “Chi di voi è disposto a lasciare che suo figlio venga a fare spettacoli all’estero per i nostri emigranti?”. Ricordo lo sguardo d’intesa fra me e mio padre. Un mese dopo partivo per la Svizzera con Teresa Fedeli, che mi ha insegnato a suonare la fisarmonica. Abbiamo girato Lussemburgo, Francia, Germania, Belgio, Portogallo. Dormivamo nelle baracche dei minatori. Ancor oggi i miei spettacoli nelle pediatrie li faccio il giorno di Natale, o a Ferragosto, quando la solitudine si fa sentire. Ci vado non solo per i piccoli malati e per i loro genitori. Ci vado per me. Ogni volta che entro in un reparto oncologico, cresco». (Estrae dal portafoglio la foto un po’ sgualcita di una bimba).
Chi è?
«Questa è Lucia, morta di leucemia a tre anni. Ballava le mie canzoni davanti a medici e infermieri. I genitori Gigi e Michela Brizzi sono di Pavia. A Rimini mi hanno sentito per caso interpretare in piazza Vola cigno, l’ultima ninnananna che avevano cantato alla figlia prima che finisse in coma. Hanno voluto conoscermi, siamo diventati amici. Lucia s’è spenta nel 2000, il 22 dicembre. Lo stesso giorno in cui se n’è andato mio padre. Quando era viva, per me questa bambina non esisteva. Adesso che è morta, io la sento viva, c’è, la porto con me».
Perché ha scelto come pubblico i bimbi?
«Perché non hanno la diplomazia degli adulti. Se quel che gli racconti non gli interessa, ti mollano subito. Ma sono anche gli unici capaci di gratitudine vera. Arrivo in una piazza dove non sono mai stato e scopro che le mie canzoni mi hanno preceduto. I piccoli spettatori realizzano che sono proprio io ad aver inventato quelle storie, è come se le avessi scritte per ognuno di loro».
Prima era un’entità astratta.
«Un giorno torno da Roma in treno. Un padre dice al figlio: “Quel signore lì è Carlo Pastori, canta le canzoni che ti piacciono tanto”. Matteo s’avvicina, mi osserva, poi torna dal papà e gli fa: “Ma cosa dici! Carlo Pastori non esiste”».
Mette più paura una platea di bambini o di adulti?
«Di adulti. Nei grandi prevale la diffidenza. Il facce ride’ è una sfida, un’ordalia. Il cabaret nacque in posti dove la gente andava per bere, mangiare, chiacchierare, fumare, trombare, e poi c’era un di più, il comico, che doveva comunque portare a casa la serata. Sei mesi fa m’è capitato d’esibirmi con Oreglio al casinò di Campione d’Italia. La gente sotto il palco ci girava le spalle e mangiava aragosta. Son cazzi. I bambini, quando s’accendono le luci e attacca la musica, smettono di mangiare. Il teatro è gioco, tant’è vero che in francese e in inglese non esiste il verbo recitare, solo jouer e to play, giocare. Il giorno che non mi divertirò più io per primo, farò l’imbianchino».
Chi è il più grande nemico dei bambini?
«Nemico dei bambini è chi gli racconta che non esistono la mamma e il papà. Come fa Walt Disney con Paperino e Qui, Quo, Qua».
La Rai ha cancellato da anni La Tv dei ragazzi.
«Un capolavoro assoluto. Metteva i paletti: di qua i bambini, di là gli adulti. La Tv era veramente uno strumento di servizio. Se cominciava uno spettacolo interessante sulla seconda rete Rai, una freccia bianca lampeggiava sullo schermo per avvisarti. Oggi l’unica preoccupazione che hanno le televisioni è di costringerti a non cambiare canale».
I suoi figli vengono a vedere lei a teatro anziché stare al computer, guardare la Tv, giocare col Game boy, trafficare col telefonino?
«Fanno tutto ciò che ha detto, anche se non nello stesso ordine».
Ne ha messi al mondo quattro, tutti con la stessa moglie. È da eroi.
«Lo rifarei».
Nessun interesse per la Hunziker.
«Non è che siccome stai a dieta non guardi il menù. Ma è più interessante coltivare un unico amore. Mia moglie mi ha incoraggiato nelle mie scelte. Quando decisi di fare il cantastorie a tempo pieno, lei non lavorava perché voleva occuparsi solo dei figli».
Ha temuto di lasciarli senza pane?
«È vero che per far bene il giullare devi aver fame, ma se l’ansia di non riuscire a mantenere la famiglia prende il sopravvento, diventa controproducente».
E lei era in ansia.
«Mi sono ritrovato con 300 euro sul conto corrente. Il telefono non squillava mai. L’avevo messo giù male».
Riesce a scherzarci.
«La linea della vita per i miei figli è sempre stata: asilo, scuola, padre che va in giro per le piazze a fare il Gioppino. Martino, l’ultimo nato, alla materna chiese a un amichetto: “Tuo papà che spettacoli fa?”. Non è mai esistito per loro un padre idraulico o commercialista. Vedono il lavoro come un mix di arte e corporeità».
Crede d’essere un buon padre?
«Io credo. E questa è già una fortuna. Domando di essere un buon padre. Lo domando al Padre, a mia moglie, ai miei figli, a me stesso. Poi faccio le mie belle cazzate al pari di tutti gli altri padri».
Come si arriva in Tv e perché la si lascia?
«La prima volta il produttore di Zelig, Roberto Bosatra, mi chiese: “Da quanti anni fai teatro?”. Tredici, risposi io. “Stasera ti vedrà il triplo della gente che ti ha visto in 13 anni”, replicò lui. Su Italia 1 ho fatto anche Colorado café. Sono andato in Tv per dire cose a persone che altrimenti non avrei mai potuto raggiungere. Però non m’interessa entrare nel giro di Lele Mora. Oggi il comico è considerato un gladiatore televisivo: deve riempire la scena, spaccare il mondo, sloggiare. Avanti il prossimo!».
Così ha scelto di servire i piccini.
«È un’operazione furba. Sono anche imprenditore. Ho intravisto uno spazio. Al mare a Ostuni, il mese scorso, eravamo in tre famiglie di amici: 30 persone. È già una mezza platea. Qui in Sudtirolo idem. Del gruppo io sono quello che ha meno figli. Di recente mi hanno portato un bimbo in carrozzella, si chiama Matteo, è cieco. A scuola, quarta elementare, la maestra gli aveva dato per tema “Il mio cantante preferito”. I suoi compagni di classe avevano scritto chi Laura Pausini chi Tiziano Ferro. Lui aveva dettato: “Il mio cantante preferito è Carlo Pastori”. L’insegnante di sostegno non capiva: “Ma chi è ’sto Pastori?”. Non faccio parte del grande giro e neppure di quello piccolo, mi accontento delle briciole. Coltivo un submercato che, oltre a darmi da mangiare, mi mette in pace con me stesso, non mi obbliga a scendere a compromessi. Se mi chiedono l’esclusiva, rifiuto, perché ho il mio amico prete di Vigolo Vattaro che mi chiama a fare uno spettacolo in Valsugana e in cambio mi offre mezza forma di vezzena e io me lo tengo stretto. Certo, mi chiamano anche nelle crociere sulle Grandi Navi Veloci o sui vascelli privati nelle Cicladi, e lì sono marchette».
Ma il suo spettatore tipo resta Matteo.
«Non sapeva di venire a un mio concerto. I genitori, che nemmeno mi conoscevano, hanno voluto fargli una sorpresa. Mi ha riconosciuto dalla voce e ha avuto un fremito. È stato un incontro commovente, di parole. Alla fine ci siamo abbracciati e gli ho detto: guarda, Matteo, io sarò anche il tuo cantante preferito, ma devo ammettere che tu sei il mio bambino preferito».
Quante serate fa in un anno?
«Circa 120».
Le manca la famiglia mentre è in giro per l’Italia?
«Tantissimo».
Dice il segretario dell’Udc che anche all’onorevole Cosimo Mele mancava tanto la famiglia.
«Sì, ho letto: la vita dei parlamentari costretti a rimanere a Roma è molto dura... Ho una proposta. Siccome so che hanno anche chiesto più soldi, io darei l’aumento alle mogli. Oppure abbasserei lo stipendio ai mariti, così la smettono di andare a troie».
Chi gliel’ha fatto fare di esibirsi al Family day?
«Me l’hanno chiesto. Ho accettato perché penso che a un certo punto della vita devi scegliere su quale barca salire. Non credo che siamo tutti sulla stessa barca. Siamo su barche diverse. Prima di me in molti avevano rifiutato. Di alcuni si sa. Di altri non si sa e non si deve dire. Ma su una questione come la famiglia, che è antropologica, non ideologica, io mi sono sentito di prendere posizione, di scegliere con chi imbarcarmi».
A parità di pelata, perché Bisio è più famoso di lei?
«Perché il merito, se Dio vuole, premia le persone giuste, vedi Fiorello. Sono felicissimo per Claudio. Ha l’intelligenza e l’umiltà di dare spazio anche all’ultimo arrivato. Non ti ruba la scena, non t’impalla mai».
Com’è riuscito a trasformare le tragedie di Shakespeare in uno spettacolo per clown?
«Grazie a Francesco Nicolini, uno degli autori di Marco Paolini. Mi ha visto fare Lezione di volo, che narra l’ultima notte di un pagliaccio. Un angelo clown va a trovare un vecchio collega sulla pista di un circo, fanno una gag insieme, poi il cherubino regala all’amico un paio d’ali e se lo porta con sé. Nicolini ci ha colto, bontà sua, la capacità d’interpretare la clownerie in modo drammatico, e così ha preso tutte le morti tragiche del Bardo, da Giulio Cesare a Romeo e Giulietta, da Cleopatra a Desdemona, ed è venuto fuori The clown Shakespeare company».
Ha paura della morte?
«Non della mia. Di quella dei miei cari. Sperimento questo terrore tutte le sere quando i figli escono di casa. Per me, scelgo l’opzione di Fabrizio Canciani, uno dei comici della scuderia catartica di Oreglio: vorrei morire nel sonno come mio nonno, e non urlando di terrore come i passeggeri del pullman che stava guidando».
Il monello che fu non è mai morto.
«Però non soffro della sindrome di Peter Pan. Anche se, mettendomi al volante dell’auto, ancor oggi mi dico, come quando ero bambino: “Adesso il capitano prende il timone della sua nave e parte”».
Se lo dice o si limita a pensarlo?
«No, no, me lo dico proprio, ad alta voce. E quando imbocco una galleria trattengo il fiato finché non sono sbucato dall’altra parte».
Dentro il Gottardo è già più difficile.
«La scritturo come autore».
Cantastorie atei ne conosce?
«No, mi dispiace. Magari ce ne saranno. Ma l’educazione resta sempre legata a una fede.
(385. Continua)
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