La commedia sull’eutanasia rivitalizza il Festival

RomaCe l’ha fatta ad arrivare in finale la quinta edizione del Festival di Roma, flagellata da una serie nera di disservizi e polemiche (per tacere delle grottesche proteste dei 100 Autori, causa d’un massiccio presidio di Polizia, con danno d’immagine relativo: non c’è festa del cinema dove abbondano i celerini). Tanto che s’era diffusa la voce d’una salvifica fusione con l’altra kermesse capitolina dedicata alla tv, «Roma Fiction Fest». Ma Piera Detassis, abbacchiata direttrice artistica, ha subito smentito. «Il Festival di Roma parla e ha una doppia faccia: da una parte, quella della critica e dall’altra quella del pubblico, che ha divorato i film», s’è affrettata a distinguere la manager, perché i numeri le danno ragione. A smentire l’accusa di provincialismo, da più parti rivolta all’organizzazione, i premi sono andati in una direzione più che accettabile. A partire dal Premio Marc’Aurelio della Giuria, attribuito a Kill me please del belga Olias Barco (acquistato dalla Archibald di Vania Protti Traxler): il tema dell’eutanasia, trattato con divertita irriverenza e il tono della commedia nerissima, sono stati l’arma vincente che ha convinto i giurati. Kill me please è piaciuto anche ai ragazzi delle scuole, quindi Premio Farfalla d’Oro Agiscuola alla stravagante pellicola. Anche la prevedibile assegnazione del Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio a In a better World della danese Susanne Bier ha tenuto il punto. Si tratta d’un film convincente, dove sentimenti e denuncia sociale si mescolano con equilibrio. Il Premio Speciale della Giuria, poi, andato al complesso film tedesco Poll di Chris Kraus, ambientato durante la Prima guerra mondiale, con magnifici costumi d’epoca e bravi interpreti, è parso ben dato. Naturalmente, non si potevano trascurare gli italiani, presenti in forze, ma scarsi di idee, sicché il sempiterno Divo Toni Servillo (in sovraesposizione) è stato designato Miglior Attore. Protagonista intenso di Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, è piaciuto l’interprete napoletano, più vibrante che mai nel ruolo dell’ex-malavitoso, al quale comincia a essere abbonato. Simpatica anche l’idea di attribuire un premio cumulativo, quello di Miglior Attrice, al cast femminile del messicano Las buenas Hierbas di Maria Novaro, pellicola singolare nella quale chimica botanica e chimica umana scorrono su binari paralleli. E per il primo anno, la neoistituita Targa Speciale del Presidente della Repubblica è andata all’irano-americano Dog Sweat di Hossein Keshavarz, sulla vita di sei giovani ragazzi nell’Iran di oggi: cinema verità e voglia di ribellione a Teheran. Il pubblico ha votato, come al solito, per via elettronica, attribuendo la sua preferenza al film di Susanne Bier, che fa il pieno di consensi. Attenti come di consueto, gli under 12 frequentatori della curatissima sezione «Alice nella città» hanno preferito l’antimilitarista I want to be a soldier di Christian Molina (e Valeriana Marini si frega le mani, visto che lo ha prodotto), mentre la giuria junior al sopra dei 12 anni ha premiato Adem di Hans van Nuffel, delicata vicenda di fratellanza e fiducia nella vita. Alla regina degli sceneggiatori italiani, Suso Cecchi D’Amico, scomparsa a luglio, è andato il pensiero dei presenti in Sala Sinopoli nel corso della cerimonia di premiazione, guidata da Claudia Gerini. Tutti a casa, allora, per riprendere il tormentone di questi giorni, dato che produttori e attori milionari hanno invaso il tappeto rosso sotto l’egida di questo titolo-slogan? Ma sì.

«Il Festival di Roma è un contenitore che va sicuramente ripensato», avverte la Detassis, temendo uno spostamento dall’Auditorium (sede disagevole e dispendiosa). La bilancia, nonostante il malcontento generale, pende dalla parte degli incassi: 118mila i biglietti emessi, 460mila euro guadagnati, 8.598 accrediti,5mila giornalisti.

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