Gli americani, almeno su questo fronte, possono stare tranquilli: negli anni a venire non si troveranno a fare i conti con le Asl e con le mega-truffe all'italiana riguardanti le fustelle false o le protesi taroccate. Nonostante quanto si dice, il progetto Obama sulla sanità non si propone di «europeizzare» alcunché, soprattutto perché sarebbe difficile smantellare la struttura attuale, basata sulle assicurazioni private, al fine di creare una sanità di Stato simile a quella che noi conosciamo. Il presidente Usa non si propone di dar vita a un sistema con ospedali pubblici e assistenza diretta. Mira invece a risolvere due problemi principali. Egli intende estendere a tutti le cure sanitarie, coprendo anche quei 36 milioni di persone che oggi non possono permettersi di acquistare un'assicurazione. Ma si propone anche di provare ridurre i costi, oggi davvero alti, che tutte le famiglie devono sostenere.
In termini assai semplici, Obama vuole affiancare alle assicurazioni private un'agenzia pubblica, la quale entri in competizione (una competizione di fatto «sleale», ovviamente) con le prime e offra gli stessi servizi, ma a prezzi più contenuti. L'idea di base è che il sistema attuale non funzioni perché le assicurazioni ricercano il profitto e che quindi la soluzione possa venire da un programma federale. Poiché pubblico, questo istituto non dovrà prestare attenzione al rapporto tra entrate e uscite: come fa, invece, chi deve stare sul mercato.
Non a caso, il progetto di Obama comporta un costo altissimo - stimato in 1.200 miliardi di dollari, ripartiti in un decennio - perché qui si tratta di sussidiare chi, oggi come oggi, non è in grado di acquistare sul mercato le cure di cui ha bisogno. L'iniziativa è però sbagliata e nasce da un ottuso pregiudizio anti-liberale. Obama e i suoi ignorano che il profitto (anche quello delle assicurazioni, ovviamente) è una condizione indispensabile ad avere un sistema economico funzionante. Ovviamente c'è l'esigenza che ogni settore sia aperto e che quindi non si creino ambiti in cui il profitto si trasforma in una rendita. Ma è esattamente su tali questioni che un riformatore assennato avrebbe dovuto concentrare la propria attenzione!
La verità è che il sistema sanitario americano è costosissimo a causa di quello che l'economista Arnold Kling, ne «La sanità in bancarotta» (uno studio eccellente, ora disponibile anche da noi con una bella prefazione di Giampaolo Galli), ha chiamato «l'emergere della medicina premium». Ossia, una sanità esageratamente dispendiosa, in cui si fa un uso intenso di diagnostica e farmaci, non ci sono le liste d'attesa che noi tristemente conosciamo, la qualità di ospedali e centri di cura ha poco a che fare con ciò che il nostro Stato riesce a mettere assieme.
Va aggiunto che sulle spalle degli americani grava una parte rilevante degli oneri della ricerca farmaceutica globale e che, per di più, negli Usa è ormai consolidato un cattivo costume che porta i giudici a esprimersi pregiudizialmente a favore dei pazienti in quasi ogni controversia per malpractice. Il che obbliga dottori e cliniche a ricorrere a costose coperture assicurative. Una vera riforma dovrebbe andare quindi alla radice dei problemi, responsabilizzando un po' tutti e inducendo i pazienti a ricorrere a cure ed esami solo quando è davvero utile. Gli sforzi da compiersi andrebbero orientati a tagliare i costi irragionevoli: ma non introducendo, come si vuol fare, un concorrente statale, destinato a essere costantemente in rosso e che quindi, per definizione, perturba il mercato.
Al di là delle questioni strettamente sanitarie, la riforma minaccia la tenuta complessiva della società americana. Il costo annunciato è davvero enorme e va ad assommarsi agli 800 miliardi di dollari degli «stimoli» e agli altri 700 stanziati per salvare le banche. Il tutto mentre la disoccupazione cresce come non succedeva da tempo.
L'economia americana è forte.
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