Il commento Un test per la politica della Casa Bianca

Come ci si aspettava, i talebani stanno compiendo un ultimo sforzo per impedire la riuscita delle elezioni presidenziali in programma domani: dopo avere minacciato di tagliare dita, orecchie e naso a chi si recherà alle urne e avere distribuito in molte province volantini per spiegare che la procedura è contro il Corano, ieri hanno compiuto una serie di attentati quasi senza precedenti per indurre la gente a restarsene a casa. La loro offensiva ha già fatto sì che circa 500 delle 7.000 sezioni allestite per i 15 milioni di elettori non apriranno neppure, che un altro migliaio sia considerato «ad alto rischio» e che le stesse autorità ammettano che la possibilità di brogli è molto elevata. Tuttavia, sia il governo, sia il comando Nato, sia il rappresentante dell'Onu si dimostrano fiduciosi che l'affluenza, anche se inferiore al 70% registrato nel 2004, sarà sufficiente a conferire la necessaria legittimità al vincitore. Il problema è che, stando agli ultimi sondaggi il presidente Karzai, pur restando il favorito con il 45% delle preferenze, non sembra in grado di ottenere la vittoria al primo turno; e andare al ballottaggio, già fissato per il 1° ottobre, significa dare ai talebani altre sei settimane per portare avanti la loro offensiva, con la prospettiva di altre centinaia di morti e - di conseguenza - di una più forte astensione.
Nel corso della campagna elettorale, sia Karzai sia i suoi due principali avversari, l'ex ministro degli Esteri Abdullah e l'ex ministro delle Finanze Ghani, si sono impegnati a lavorare per la pace, ma ci sono forti differenze sulla strategia da adottare: il presidente punta su un accordo a livello nazionale, attraverso la convocazione di una grande assemblea tribale cui verrebbero invitati anche alcuni leader islamisti, come il famigerato Hekhmatyar; Abdullah e Ghani privilegiano invece le trattative a livello locale, con l'obiettivo di indurre il maggior numero possibile di ribelli a rientrare nei ranghi. Su ogni tentativo di pacificazione, pesa comunque il veto Usa a qualsiasi intesa con gli elementi della rivolta legati ad Al Qaida, principali responsabili della moltiplicazione di attacchi suicidi.
Le elezioni rappresentano un test cruciale per Obama, che ha fatto della guerra in Afghanistan la priorità numero uno della sua politica estera e in sei mesi ha portato il numero dei soldati americani da 45 a 63mila, con l'obiettivo di restituire al controllo governativo una serie di province fin qui largamente controllate dai talebani. In un discorso ai veterani, il presidente ha ammesso che la campagna durerà a lungo e richiederà ulteriori sacrifici non solo da parte dell'America, ma anche dei suoi alleati. La Casa Bianca non è contraria ai negoziati, ma ritiene che essi possano avere successo solo se condotti da una posizione di forza, oggi ancora lontana.

Perciò, in attesa di conoscere chi sarà il nuovo presidente (vista la difficoltà delle comunicazioni, i risultati sono attesi solo per il 3 settembre) continua a fare affluire truppe, con una doppia consegna: sradicare i talebani dai loro santuari e cercare di conquistare la fiducia delle popolazioni.

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