La commessa laureata che sognava l’arte

MilanoCosa si può dire di una ragazza ammazzata a ventiquattro anni da un mascalzone fumato e impasticcato? Che era minuta, sveglia e allegra. Che aveva pochi soldi in tasca e uno sguardo aperto sul mondo. Che si era laureata in una materia complicata studiando sodo anche mentre lavorava a vendere sci e palloni in un meganegozio di sport. Che stava tornando a casa sulla sua piccola auto nuova quando la sua pista ha incrociato quella di Alessandro Mega. Mega al volante non ci poteva stare, perché era senza patente. Invece guidava come un pazzo, a 100 all’ora su una strada secondaria tra le case. Ed è piombato sulla 500 che portava Roberta verso casa.
Sono arrivate le amiche che la seguivano su un’altra auto e sono arrivati i lettighieri del 118. La ragazza se n’è andata prima ancora che riuscissero a metterla in ambulanza. Si chiamava Roberta Caracci ma molti la chiamavano Robertina, per quanto era minuta.
Da sempre, in questi casi, si va a bussare alle porte degli amici, dei familiari, dei vicini di casa, alla ricerca di scampoli di racconto: per capire quali speranze siano state distrutte da una morte così brutale e ingiusta. Ma Roberta era una ragazza di oggi, il suo mondo era il mondo telematico di Internet, e il suo cortile di casa era Facebook. Oltre duecento amici, facce di ragazzi della sua generazione. Ieri bastano poche ore perché nella comunità virtuale si sparga la notizia della tragedia. E la scanzonata comunità di Facebook diventa un moderno muro del pianto dove uno dopo l’altro spuntano i messaggi del dolore. Ciao Robertina, sarai sempre nei nostri cuori.
Non era una nottambula, una stakanovista dei weekend in discoteca. D’altronde come puoi fare l’alba in discoteca se la tua vita è quella di Roberta, di giorno la pettorina azzurra di Decathlon, la sera i libri dell’università? La Decathlon di Baranzate è un negozio grosso come un paese, impiego classico da ragazzi sul crinale tra studi e lavoro. Roberta era arrivata qui un anno e mezzo fa. Stava preparando la tesi di laurea in Gestione dei beni culturali, ma aveva deciso che non era più giusto pesare sulle finanze non opulente della sua famiglia di impiegati. Colloquio, assunzione. Di lei, i compagni di lavoro alla Decathlon, ricordano soprattutto i sorrisi. Anche i sorrisi di venerdì pomeriggio. Un pomeriggio normale. L’ultimo giorno di lavoro di Roberta. Il suo ultimo giorno di vita.
La sua vita, la sua storia stava tutta nei pochi chilometri di questi paesoni cresciuti a nord di Milano. Arese, Bollate, Baranzate, vecchia cintura operaia investita dalla Grande Crisi e in qualche modo sopravvissuta nei rapporti sociali, nella capacità di aggregazione. Roberta considerava questa la sua casa, ma cercava di guardare più in là. La media superiore l’aveva fatta al Liceo Artistico «Lucio Fontana», che è da sempre il primo approdo di chi da queste parti non ha in mente per sè un futuro da ufficio o da fabbrica. Degli anni di Roberta al liceo resta, negli archivi del «Fontana», il progetto di un tavolo: funzionale, lineare, quasi astratto. Lei del liceo non doveva conservare un grande ricordo.

Si era iscritta al gruppo su Internet degli ex allievi ma l’unico ricordo che, il 21 settembre, aveva affisso sul sito era lapidario: «Senza offesa, ma io non tornerei mai al liceo». Perché Roberta Caracci voleva volare più alto. E non le è stato permesso.

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