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La divinità pagana che ha incantato un'epoca

Il suo volto, il corpo e l'anima sono stati a lungo il simbolo stesso della Francia

La divinità pagana che ha incantato un'epoca

Ogni volta che sul teleschermo o in un cinema d'essai passa un film di Brigitte Bardot l'adolescente che sonnecchia nel nostro corpo si risveglia e resta in adorazione. Nessuna è riuscita a incarnare come lei il senso panico di un erotismo amorale e impudico, naturale e innocente. Non era una questione di pura e semplice bellezza, ché ci sono state e ci sono attrici più belle e con più fascino; né di bravura, perché quanto a recitazione la sua non brillò mai e quando accadde fu quasi per caso e come controvoglia. Era un qualcosa che aveva a che fare con la felicità e l'indolenza, una punta appena di malinconia, l'allegra sfrontatezza di chi si offre perché così le va, senza sadismi e senza masochismi. Che prendesse il sole senza costume sul terrazzo di una casa, che ballasse scalza su un tavolo, che si togliesse un impermeabile, in quel momento suo unico indumento, che si presentasse al proprio ricevimento di nozze in sottoveste a riempirsi un piatto di cibo per poi ritornarsene a letto, l'impressione che se ne aveva era quella di una divinità pagana per la quale fosse doveroso perdersi, senza colpa e senza espiazione se non per le sofferenze che il successivo abbandono avrebbe provocato. Una bellezza succinta e/o assoluta, da teli da mare, da lenzuola d'albergo con su sparse le briciole della prima colazione, da notti in spiaggia a piedi nudi, da champagne e corse in macchina.

Si dirà che era un'immagine e non la realtà, e che dietro di essa, come il tempo e la vita avrebbero dimostrato, c'era una donna fragile, piena di ansie e di pulsioni suicide, a disagio con i sentimenti e con il suo stesso corpo. Può darsi, ma in realtà l'una non esclude l'altra e in ogni vitalismo attivo si spalancano abissi di tragedia, albergano solitudini e pensieri neri, trova spazio l'insensatezza del vivere, la sua gratuità, il suo peso a volte insormontabile. La libertà si paga, e a caro prezzo: "Sono sempre stata una ribelle e sono sempre stata troppo lucida per poter essere mai stata felice".

Ninfa silvana abbiamo detto, e infatti Brigitte Bardot altro non è stato che il ritorno-irruzione della paganità nel mondo giudeo-cristiano desacralizzato dove la forma cattolica ha preso il posto della sostanza e dove la civiltà industriale democratica ed egualitaria ha fatto delle diseguaglianze un tabù.

Lo scandalo e il fascino della Bardot non derivavano dall'aver consapevolmente infranto delle regole più o meno morali, più o meno borghesi, quanto dalla naturalezza con cui le infrangeva, perché non la riguardavano, non erano un suo problema. È l'errore compiuto da chi muovendosi sulle tracce di Simone de Beauvoir, del "secondo sesso", della liberazione sessuale, del femminismo non si è accorto che si trattava di sabbie mobili dove sarebbe finito inghiottito, laddove c'è una strada maestra che dalle memorie di Casanova ai racconti di Barbey d'Aurevilly e di Balzac alle novelle di Paul Morand è punteggiata di archetipi brigideschi, ninfe silvane, appunto, ninfe marine in un mondo che già non è più in grado di riconoscerle, apparizioni che rimandano agli albori della classicità, quando a dominare era l'emozione, non la ragione. Sotto questo aspetto, anche l'accusa, più o meno corriva, più o meno banalmente polemica di una Bardot "di destra", "schierata a destra", ha una sua verità se con questa parola non si intende una prassi politica o una teoria ideologica, ma uno stato d'animo, un sentimento classico e premoderno in cui gli elementi etico-estetici prevalevano su quelli etico-egualitari, dove l'ideale aristocratico, ovvero la scelta e il privilegio dei pochi, prevaleva su quello democratico, la maggioranza come forma e fonte di comportamento.

E, naturalmente, Brigitte Bardot, il volto, il corpo e l'anima di Brigitte Bardot, sono stati il simbolo stesso della Francia, meglio di quella "certa idea della Francia" sentita da De Gaulle come una verità e insieme una missione. Lo è stato con il suo busto scolpito da Aslan come una moderna Marianne, incarnazione della Repubblica, con le foto di Doisneau, Avedon, Sam Levin che ne catturavano il fascino infantile e carnale, con il ritratto di Van Dongen e gli abiti metallici di Paco Rabanne... Una leggenda e insieme l'emblema di quegli années insouciance che la tennero a battesimo e non ha avuto torto, anni fa, il settimanale di moda Elle a sintetizzare la sua carriera di attrice dicendo che "Brigitte Bardot sta al cinema francese come Dostoevskij al romanzo russo".

Due immagini resteranno in eterno a tramandarne il mito. La prima, tratta dal film di Jean-Luc Godard, Il disprezzo, la vede sdraiata a prendere il sole sulla terrazza di villa Malaparte, vestita solo di un libro che le copre le natiche, la bellezza più indifesa e più inquietante del nostro Novecento. Immersa nella luce e nella natura a picco sugli scogli di Punta Massullo, la casa si rivelava per quello che è, un tempio pagano, e Brigitte la sua divinità. Nel film Michel Piccoli, sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, saliva la scalinata a trapezio che porta alla sommità dell'edificio, si sedeva, cappello in testa, vestito di tutto punto, a fianco della passiva e nuda sacerdotessa. "Disturbo?", chiedeva. "No" era la risposta. Poi, sollevato il libro da quel tabernacolo profano, cominciava a leggere. Al mistero del potere femminile opponeva la sua sterilità d'intellettuale. "Beauty is difficult" dice un verso di Ezra Pound.

La seconda è uno scatto del 1965: bocconi su un divano, due rose nei capelli e un braccialetto al polso come unici indumenti-ornamenti, è in piena luce nella penombra della stanza. Una principessa barbara, inerme eppure invincibile. Immortale, anche se proprio oggi ci ha lasciato.

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