Una compagnia che fa volare solo costi, debiti e aiuti di Stato

Alitalia perde centinaia di milioni ogni anno. Soldi pubblici e continui cambi di manager non sono bastati. E l’11 settembre l’ha mandata in coma

Gian Maria De Francesco

da Roma

«Troppo grande per essere una compagnia regionale, troppo piccola per sopravvivere da sola». È il 26 gennaio del 1994 e il presidente dell’Iri, Romano Prodi, con il suo fare pacioso spiega il perché e il percome del duro piano di ristrutturazione di Alitalia che prevede tagli del personale e congelamento degli aumenti promettendo un futuro radioso.
Di lì a poche settimane il nuovo amministratore delegato della compagnia, Roberto Schisano, sotto la pressione dei sindacati, fa marcia indietro rispetto al suo predecessore Giovanni Bisignani e sblocca gli aumenti contrattuali di piloti e assistenti di volo. Le cose, però, continuano ad andar male e tanto Schisano quanto l’azionista di riferimento (a quei tempi l’Iri deteneva oltre l’85% del capitale, ndr) Prodi vengono folgorati sulla via di Damasco da una nuova idea di business: puntare sul Settentrione industrializzato. «Il Nord italiano è l’area più ricca d’Europa ed è ridicolo che non esista una struttura aeroportuale a livello degli altri Paesi», dice il futuro premier il 22 marzo 1994. Vista a dodici anni di distanza appare l’ennesimo cambiamento di rotta, ma anche sul Ponte di Messina il presidente dell’Iri Prodi e l’attuale presidente del Consiglio la pensano diversamente.
Nel frattempo, però, sono passati dodici anni e il paziente Alitalia non ne vuole proprio sapere di uscire dal coma. Logico domandarsi quanto siano costati tutti i tentativi di cercare la salvifica terapia d’urto. Bisogna partire dal marzo del 1990 quando la compagnia di bandiera chiede al mercato, cioè all’Iri, 400 miliardi di vecchie lire (206 milioni di euro) per proseguire nei suoi piani di sviluppo. L’anno precedente non si è concluso nel migliore dei modi, ma la tempesta deve ancora arrivare. È la «tempesta del deserto» della prima guerra in Irak che mette in ginocchio il trasporto aereo. La vecchia Alitalia va in debito d’ossigeno, ma le divergenze di vedute tra management, personale, politica e sindacati fanno sì che debbano passare cinque anni perché il primo progetto di aumento di capitale venga finalmente approvato. È il primo luglio 1996 e l’azienda, che ogni anno macina passivi dell’ordine dei 400 miliardi, torna a chiedere al mercato, cioè all’Iri 2.750 miliardi di lire (1,55 miliardi di euro).
Il via libera dell’Ue fa slittare l’operazione al 1997 e l’ultima tranche della ricapitalizzazione sarà versata solo nel 2001. Nel frattempo sono sfumate possibili alleanze con British Airways, Cathay Pacific e Continental. Anche il matrimonio con l’olandese Klm si rompe in fretta. Però il 1997 e il 1998 si chiudono in positivo e nel 1999 viene distribuito un dividendo di 40 lire per la prima volta dopo 11 anni. Sarebbe il momento migliore per la svolta tanto sperata, ma non succede nulla.
L’11 settembre 2001 arriva inatteso, ma Alitalia si salva un’altra volta in corner con un nuovo aumento di capitale in azioni e obbligazioni convertibili da 1,43 miliardi. Arriva il 2004 e la situazione non cambia, ma ad evitare il fallimento giunge un prestito ponte garantito dallo Stato da 400 milioni e la separazione societaria tra attività di volo e servizi (che verranno ceduti a Fintecna). Siamo al 2005, la musica non cambia: aumento da 1,2 miliardi e riscadenziamento delle obbligazioni del 2002 al 2010 con incremento del tasso di interesse corrisposto al 7,5 per cento.
Ed è proprio sulla fine che bisogna concentrarsi: il prospetto dell’ultimo aumento di capitale lo dice a chiare lettere. «Alitalia allo stato non è in grado con i propri flussi di cassa operativi di far fronte agli impegni finanziari da assolvere nei prossimi 12 mesi». Lo Stato, pur scendendo sotto il 50% di Alitalia, ha fatto la sua parte, ma ora la situazione si presenta immutabile come da 16 anni a questa parte e dopo circa 5 miliardi di iniezioni di capitale a vario titolo. Bisignani, Schisano, Riverso, Cempella, Mengozzi, Cereti, Bonomi, Zanichelli, Cimoli sono gli uomini che si sono alternati alla guida del carrozzone senza riuscire a cambiare la situazione: a fine giugno 2006 la perdita consolidata è stata di 210 milioni.
Sarebbe perfino semplice affermare che la stagnazione dei ricavi (solo 24 milioni di passeggeri nel 2005), i costi elevati e la perdita di quote di mercato in Italia sono le cause della crisi. Perché in quindici anni non è cambiato nulla, mentre AirFrance-Klm, Lufthansa, British Airways e Iberia sono in attivo.
La conclusione si può tranquillamente affidare a un report di Morgan Stanley dello scorso giugno, attuale perché nel frattempo la capitalizzazione è rimasta pressoché immutata.

«La valutazione di Borsa di 1 miliardo è inferiore al valore di libro di 1,2 miliardi perché sconta il timore di nuovi scioperi che possano azzerare la cassa». Ma tra proteste sindacali, dichiarazioni improvvide e allarmi, piani e previsioni sono rimasti carta straccia.

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