A danneggiarci sono sempre i soliti, antichi vizi. Ormai riconoscibili come un marchio di fabbrica. Se la classifica sulla competitività che il World Economic Forum (Wef) pubblica con cadenza annuale fosse solo riferita alle nostre imprese, lItalia starebbe in vetta, comodamente seduta nellolimpo della top ten. E invece, no. Gli economisti di Davos intendono, non a torto, la competitività come un insieme di valori variegati e integrati. Del resto, vogliono misurare lefficienza di un sistema-Paese, non un singolo settore di attività. E per farlo, prendono in considerazione anche il mercato del lavoro, lindebitamento della pubblica amministrazione, la pressione fiscale. È così che lItalia viene tristemente collocata al 48º posto in graduatoria (133 nel complesso le posizioni), un gradino sotto la Slovacchia, due sotto la Polonia. Rispetto allanno scorso la penisola ha scalato una posizione, ma se si considera che nel 2007 occupava la 49ª piazza, si ha la sensazione di una situazione cristallizzata. Non peggioriamo, ma neppure miglioriamo, continuando a restare il fanalino di coda del G7.
Eppure, dal rapporto del Wef sembra che lItalia abbia risentito della crisi meno di altri Paesi. Gli Stati Uniti, afflitti da «indebolimento della finanza e destabilizzazione delleconomia», nonché sospettati di non riuscire a mantenere la giusta distanza tra pubblico e privato, sono stati scalzati dal trono dalla Svizzera, nonostante la fiducia nelle banche elvetiche sia calata. Terza è Singapore, quarta e quinta Svezia e Danimarca. Lo scivolone più vistoso è stato quello della Russia (dal 12º al 63º posto), a causa dei timori sullefficienza del governo e sullindipendenza del sistema giudiziario, mentre la Cina ha guadagnato una sola posizione (è 29ª) per effetto delle difficoltà incontrate sui mercati finanziari, nellistruzione e nellammodernamento tecnologico.
Il nostro Paese eccelle invece nella «business sophistication», ovvero nella efficienza di produzione di beni e servizi, e nella forte presenza dei distretti industriali (per cui si colloca al terzo posto). Performance positive sono state realizzate in settori complessi misurati dallindice, in particolare nellaffinare le sue attività sullambiente», dove il piazzamento della penisola sale al 20º posto. Buoni anche i risultati di competitività sulla produzione di beni a elevato valore aggiunto che sfruttano tecnologie innovative, prosegue il Wef. «LItalia - riassume il rapporto - trae anche beneficio dal suo grande mercato, il nono maggiore al mondo che le consente di operare significative economie di scala».
Le imprese, insomma, hanno retto allonda durto dello tsunami economico-finanziario. È grazie al tessuto industriale se non siamo scivolati ancora più in fondo alla classifica, dove ci avrebbero trascinati i nodi di sempre, ovvero un mercato del lavoro «tra i più rigidi del mondo», un eccesso di burocrazia e conti pubblici «con livelli estremamente alti di indebitamento», tali da affossarci al 128º posto.
Siamo inoltre in zona retrocessione per la fiducia nella classe politica (107º posto), scendiamo al 121º per lo spreco di denaro pubblico e al 128º per lefficienza del sistema legale; per la trasparenza delle decisioni politiche ci tocca il 109º. Sul mercato del lavoro non vanno, invece, la scarsa flessibilità nella contrattazione salariale (126ª posizione), le difficoltà nelle pratiche di assunzione e licenziamento (128º) e il binomio salari e produttività (124º). Efficienti dal punto di vista produttivo, le aziende non proteggono invece gli interessi dei soci di minoranza (124ª posizione) e non brillano per lefficacia del cda (121º).
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