Siamo a dieci DeCo, squisitezze che andrebbero in verità scritte, singolare o plurale che sia, De.Co., ma è bruttarello. Conta comunque la sostanza, preparazioni che appartengono al quotidiano gastro-alimentare di Milano, con la speranza che tutte trovino un futuro autentico, senza addosso la polvere del tempo o lo stravolgimento totale e a volte assurdo della modernità. Trattasi delle Denominazioni comunali, di ricette alle quali lamministrazione riconosce un elevato tasso di milanesità fino a eleggerle simbolo della città. Strano ma vero: liniziativa mette daccordo maggioranza, incarnata dallassessore al Commercio Tiziana Maiolo, e opposizione, tanto che alla conferenza di ieri ha fatto capolino Maurizio Baruffi, capogruppo dei Verdi, primo firmatario della mozione con la quale se ne chiedeva listituzione, richiesta votata allunanimità l11 ottobre.
Baruffi ha evocato lo spirito bipartisan della candidatura per lExpo 2015 ed è chiaro che unesposizione universale che ha per tema lalimentazione, non può prescindere dalle ricette tipiche della città che laccoglie. Resta poi da trovare un punto di equilibrio tra le due facce di una ricetta: quella legata al nutrire e quella squisitamente del piacere perché un minestrone, piatto povero, nasce dallimperativo di saziare stomaci vuoti, mentre nel panettone il lato edonistico è molto più marcato.
Cinque DeCo a dicembre e cinque ieri. Dopo Michetta, Risotto alla milanese, Cassoeula, Ossobuco e Panettone, è stata la volta di Minestrone alla Milanese (odiato da tutti i bambini, prevede il riso, aggiunta che lo distingue tra mille), Costoletta (sempre alla Milanese e con losso, altrimenti avremmo una cotoletta), Mondeghili (polpette di carne nel Resto dItalia), Rostin Negaa (è un sublime arrostino di vitello) e Barbajada, una dimenticatissima preparazione di inizio Ottocento a base di cioccolato, caffè e panna. Tutte loro riunite sotto un logo (guai a definirlo marchio, soprattutto di qualità) raffigurante il Duomo stilizzato, con al centro lacronimo DeCo e sotto la scritta «arte culinaria milanese».
Tiziana Maiolo ha rimarcato «il forte legame del cibo al territorio e alla sua storia», mentre chi dà vita alla commissione (Slow Food, Papillon, Camera di commercio, Ristorarte e Identità Golose ovvero il sottoscritto) ha via via spiegato il lavoro svolto e le sue finalità. Punto importante: il Comune non distribuisce patenti di bravura ai cuochi e ai ristoranti. «Milano, a differenza di tante altre grandi città, ha una sua cucina tipica e va valorizzata anche in vista dellExpo», ha ricordato lassessore.
Si tratta di individuare, in una metropoli che guarda sempre in avanti, cosa di buono ha prodotto in cucina, di arrivare a una ricetta che ne incarni lo spirito e il mutare della tradizione e, più avanti, di indicare dove viene eseguita. In pratica, quando tutto sarà a regime, chi troverà quel logo saprà che risotto, ossobuco o michetta saranno conformi alla storia di Milano, senza eccessi talebani da una parte e nemmeno follie creative dallaltra, come quel cuoco laziale che serve un babà al rhum chiamandolo brioche.
La cucina non si ferma mai e pensare che una ricetta sia uguale nel tempo è pura illusione.
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