Il comunista sopravvissuto al comunismo

Alberto Pasolini Zanelli

Forse finisce con una scorciatoia il regno più lungo nella storia moderna: a 47 anni di dominio ininterrotto non era arrivato neppure Francisco Franco. A pochi giorni dall’ottantesimo compleanno Fidel Castro ha ceduto «temporaneamente» il suo potere all’Avana a suo fratello Raul. Mentre lo curano per una malattia. Evidentemente grave, visto che fra i sintomi dichiarati ufficialmente c’è un’emorragia intestinale. Non è necessario spingere il «romanzo» fino a dare Fidel già morto e i suoi eredi intenti a litigare per dividersi i resti del potere prima dell’annuncio del decesso. Di un procedimento del genere si era parlato, più di recente, nel caso di Franco in Spagna e poi di Tito in Jugoslavia. Nelle dittature può succedere di tutto, anche questo. Ma non è spostando una data che si alterano i dati del problema, non è dai dettagli di una morte che possono venire elementi per giudicare e riassumere una vita. Qualche immagine, questo sì, può occorrere.
Di Fidel si attende da vent’anni ormai il decesso politico, più importante di quello fisico. Per il comunismo a Cuba non ci sono speranze. Non ce ne sono mai state, sono ancora drasticamente diminuite da quando a dire addio al comunismo è stata la casa madre, la Russia sanguinante e impoverita che con le importazioni «politiche» dello zucchero di canna teneva letteralmente in vita il leninismo caraibico. Per tutto questo tempo ci si è attesi la riforma, un Gorbaciov cubano, anche solo un Deng, insomma un leader disposto o a cercare di trasformare il sistema o a rinunciare al comunismo onde mantenere al potere i comunisti. Fidel non ha dato ascolto né a Mosca né a Pechino: ha tirato avanti per la sua strada, ha continuato a scandire il suo slogan di «Socialismo o Muerte», non ha fatto riforme (tranne forse l’allentare i controlli per incoraggiare il peculiare turismo cubano, quello sessuale e cambiare donne con valuta) a parte rafforzare la presa del Partito. Insomma, ha trasformato l’isola in un bunker e ha guadagnato tempo indeterminato: era pronto a rischiare la morte di Cuba purché il suo potere a Cuba non morisse prima di lui. È stato coerente in questo ai metodi scelti fin dall’inizio del suo lungo potere, cioè da quando i barbudos scesero dalla Sierra a occupare le stanze della precedente dittatura in agonia, quella di Fulgencio Batista. Una guerra civile contrassegnata soprattutto da una grande abilità propagandistica, forse dovuta solo in parte a Castro e in parte anche maggiore a un fantasioso giornalista americano in cerca di uno scoop e non di un ideale.
Resta il fatto che sui due lati dell’Atlantico molti si illusero e scambiarono una presa di potere pienamente leninista per un’esplosione libertaria. Si capì subito dopo come sarebbe andata a finire: il «generoso folklore» caraibico fu ben presto sostituito da una «normalità» tutt’altro che esotica: la dittatura comunista, la persecuzione dei deviazionisti, il pugno di ferro sui dissidenti, l’impoverimento dell’intera società, la repressione, l’assenza di speranza. Le ultime sono cadute meno di due anni dopo l’avvento al potere di Fidel e del suo alter ego Che Guevara: sono affogate nella Baia dei Porci assieme al tentativo di una rapida controrivoluzione velleitariamente organizzata dalla Cia. Si vide allora che Castro sapeva giocare duro. E spregiudicatamente, come dimostrò la «crisi dei missili» che portò l’umanità vicino alle soglie della guerra nucleare e fu scongiurata in extremis dal buon senso non declamato di John Kennedy e di Nikita Krusciov.
Sotto la bandiera folklorista della Revoluccion, dei poster a diffusione universale, del «comandante Che», di «Hasta la victoria, siempre» c’era una Cuba grigia, moscovita. E c’è ancora, nonostante la scomparsa del comunismo da quasi tutto il resto del mondo, l’embargo americano, il fallimento del sistema, la miseria condensata nei decenni, l’isolamento. Fidel non ha ceduto di un centimetro, non ha tentato nessuna riforma, nemmeno la più limitata: era convinto che ogni concessione avrebbe indebolito il regime al di là di ogni recupero. Se la «victoria siempre» era sempre più lontana, restava l’altro slogan «Socialismo o Muerte». Cuba ha avuto, per vari aspetti, entrambe: l’economia ridotta a cadavere e il Potere immune da ogni scalfitura. Naturalmente a patto di mummificarsi. Lo dimostra un dettaglio previsto: nel momento di lasciarlo, Fidel l’ha consegnato, almeno di fatto, all’unico luogotenente di cui in fondo si è sempre fidato: suo fratello. Lui, Raul, ministro della Difesa, erede designato, futuro del Paese con i suoi 75 anni, descritto da diversi «cubanologi» come il più «sovietico» fra i «rivoluzionari» cubani.
Un uomo accorto, che già diverse settimane fa aveva avvertito di non sentirsi all’altezza di ricevere la successione da uomo a uomo. Poteva farlo solo a nome del Partito, che ha dedicato gli ultimi anni a rafforzare organizzativamente. Una soluzione molto simile a quella escogitata a Mosca alla morte di Lenin e poi a quella di Stalin: Direzione Collettiva. «Solo il Partito comunista è degno di prendere l’eredità di un leader come Fidel», perché «non bastano cento lepri a riempire il vuoto che lascia un elefante». Il vuoto di potere all’Avana, intende Raul.

Quello di «líder maximo» della Revoluccion latinoamericana è reclamato da altri in altri Paesi. Per cominciare da Hugo Chavez, il presidente demagogo del Venezuela che ha il petrolio con cui nutrire la sua ambizione di diventare il Castro del ventunesimo secolo.

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