Roma - Bei tempi quando si rinchiudevano a Camaldoli o si radunavano a Chianciano: conventi e terme erano cornici modeste ma ideali per uno schieramento che soffriva e s’offriva aspirando alla guida del Paese, una classe dirigente che meditava e approfondiva, sviscerava i problemi scodellando soluzioni e accreditando l’immagine di un centrosinistra parco e morigerato. Alè, or che il potere l’hanno agguantato, si sparano la reggia di Caserta per una due giorni che impegna quaranta, sessanta persone per quanto blasonate e gravide di auto blu. Dal chiostro alla Versailles dei Borboni il salto è spericolato. Anzi, spregiudicato e imbarazzante. Anche ai loro stessi occhi, se improvvisa è scattata la sindrome del nome. Già, non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sul come definire quel che vanno a fare a Caserta: chi pudicamente la chiama «riunione», chi trionfalmente «supervertice», e in mezzo l’intero ventaglio dei sinonimi. Ogni ministro o segretario dà all’evento un’etichetta esclusiva quanto rivelatrice. Dalle quali emerge la consapevolezza che la solenne adunanza non partorirà nemmeno un topolino.
Donde è sgorgata l’idea di scegliere una delle regge più fastose d’Europa per fare il tagliando dei primi otto mesi di governo? Serissimo, il mastro coordinatore della Margherita Antonello Soro declama che «la decisione di svolgere per la prima volta nella storia d'Italia il Consiglio dei ministri in una città del Sud e non a Roma, è una decisione altamente significativa che dimostra la nuova sensibilità del governo nei confronti di questa parte del Paese». Bastava così poco per placar la questione meridionale, e Giustino Fortunato non ci aveva pensato? Oddio, Francesco Cossiga li aveva già preceduti se nel finir del suo settennato trasferì per un paio di giorni i poteri del Quirinale anch’egli nella reggia borbonica, ricevendo ambasciatori e firmando decreti. Ma nel più «modesto» palazzo reale di Napoli, non nella pretenziosa reggia casertana. Comunque, gioiscono Antonio Bassolino per la trasferta campana con relativa vetrina mediatica e Clemente Mastella che ha presidente della provincia di Caserta il suo Sandro De Franciscis. Ma tutto ciò non scioglie il busillis di chi abbia indicato con la foresteria anche il palazzo, le fontane e i chilometrici giardini di Caserta. Giriamo con cautela una risposta che vien sussurrata: pare che il premier e i big dell’alleanza abbiano chiesto come sede «una località del Sud, ma non troppo». E il ministro per l’Attuazione del programma Giulio Santagata, fedelissimo di Romano Prodi, ha indicato Caserta con la sua reggia.
Per far cosa, lo sapremo forse alla fine. Per il momento, trionfa il caos e la guerra dei nomi. A battersela, son quelli che alla moda della prima repubblica s’accontentano dell’abusato «vertice», contro gli invidiosi della stabilità d’Oltretevere che sbandierano il «conclave». Col «vertice» si schierano Nicola Latorre dalemiano di coccio, Mastella leader dell’Udeur, la margheritina Maria Merloni, la dipietrista Silvana Mura, il diessino Oriano Giovanelli, e pure l’Arcigay. «Conclave» piace all’organizzatore Santagata, al comunista Pino Sgobio, al verde Mauro Bulgarelli ed anche a Cesare Salvi che pur s’augura che «non aleggi invece lo spirito dei Borboni». Piero Fassino preferisce la dizione «seminario», seguito dal dipietrista Stefano Pedica e ancor più significativamente dallo stesso leader della sua opposizione interna: sì, anche Fabio Mussi parla di «seminario». Dunque Francesco Rutelli contrattacca e si distingue con «convegno». Ermete Realacci, da vetero ambientalista qual è, evoca la «conferenza». Il sottosegretario rutelliano Giampaolo D’Andrea s’accontenta di «riunione». E se il ministro rifondarolo Paolo Ferrero s’allarga al «supervertice», Peppino Caldarola intravede invece il «teatrino». Poteva mancare «summit»? Latorre che non risparmia dichiarazioni, oltre al «vertice» si spara anche il «summit». C’è anche «convention», state tranquilli: non mancano gli ammiratori dei tempi nuovi e delle scenografie berlusconiane.
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