«Pagliacciata giudiziaria», «processo all'aria», «vendetta dei vincitori», «prima resa dei conti legale con gli autocrati arabi». Sono quattro delle definizioni del processo in contumacia, iniziato ieri e conclusosi entro poche ore con una condanna a 35 anni di reclusione, all'ex dittatore tunisino Ben Ali e a sua moglie Leila Trabelsi, fuggiti dal suo Paese il 14 gennaio scorso dopo un mese di disordini. Per assurdo, hanno tutte qualche fondamento. Il banco degli imputati era ieri desolatamente vuoto, perché l'Arabia Saudita, dove il settantaquattrenne ex presidente ha cercato rifugio ha negato la sua estradizione, e anche perché si vocifera che egli sia stato colpito da un ictus. Questo non gli ha impedito, tuttavia, di far leggere dai suoi avvocati una dichiarazione, in cui ha negato addirittura di essere fuggito di sua volontà e ha respinto con sdegno tutte le accuse che gli sono stati mosse in questa occasione: detenzione nel suo palazzo di Cartagine di denaro e gioielli per 27 milioni di dollari sottratti alle casse pubbliche, di un ingente quantitativo di armi e di due chili di stupefacenti. Ma si tratta solo di una piccola parte, e certamente non la più grave, dei 93 capi di accusa che la procura ha redatto contro di lui e che saranno oggetto di processi successivi: i più seri riguardano l'uccisione da parte della polizia ai suoi ordini di circa trecento dimostranti, saranno giudicati da un tribunale militare e comportano la pena di morte (difficile da eseguire finchè Ben Ali rimarrà a 2000 km di distanza).
La fulminea conclusione del processo, nonostante una richiesta di rinvio dei difensori, lascia perlomeno perplessi coloro che si attendevano un giudizio equo: per quanto se ne sa, non sono nemmeno stati ascoltanti dei testimoni. Trattandosi del primo procedimento giudiziario contro un dittatore cacciato dalla primavera araba, e quindi servendo da punto di riferimento anche per quelli contro Mubarak, in programma il 3 agosto, ed eventuali altri autocrati, il suo svolgimento è inquietante. Per di più, cade in un momento di grande confusione per la Tunisia, in cui la "rivoluzione dei gelsomini" di cui il Paese andava tanto fiero è in bilico. Nella sua ultima conferenza stampa, l'anziano primo ministro Essebsi si è abbandonato a un vero e proprio sfogo contro il ritorno del tribalismo e la miopia dei politici emergenti.
L'8 giugno scorso, il governo provvisorio da deciso di rinviare le elezioni, originariamente fissate per luglio, al 23 ottobre. La motivazione ufficiale è che i partiti risorti dopo la lunga dittatura hanno bisogno di più tempo per organizzarsi, radicarsi sul territorio, trovare dei candidati validi. Al momento si registra una grande frammentazione (le formazioni che si sono registrate in vista della consultazione sarebbero addirittura 93!) e una preoccupante assenza di programmi, che si spera possa essere colmata nel corso dell'estate. La realtà è più sfumata: i notabili "laici" che si sono accollata la difficile transizione da dittatura a democrazia sono stati colti dal timore che un ricorso affrettato alle urne avrebbe portato al potere il partito islamista Ennadha, l'unico ad avere già una struttura, che ha poco seguito nella borghesia urbana e nella classe media delle città costiere, ma spopola nei distretti rurali dell'interno, dove potrebbe conseguire facilmente la maggioranza assoluta. La prospettiva di una vittoria degli islamisti ha prontamente evocato i fantasmi della guerra civile scoppiata nella vicina Algeria vent'anni fa, quando i fondamentalisti si imposero nel primo turno delle elezioni e, per evitare che prendessero il potere, i militari attuarono un colpo di Stato. Neppure l'esercito tunisino, si ritiene, tollererebbe che la rivoluzione democratica di cui è stato uno dei principali protagonisti finisse con la imposizione della Sharia e l'obbligo del velo.
In questo quadro, un processo sommario a Ben Ali poteva avere una funzione stabilizzatrice.
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