La confessione Così io, psichiatra, ho autorizzato un omicidio

LAVORO Da giovane toccava a me valutare i danni mentali per le donne malate o tossicodipendenti

La tragica vicenda del piccolo feto bambino di 22 settimane morto in un’incubatrice dopo che un cappellano ospedaliero si era accorto che il suo piccolo cuore ancora batteva prima di essere gettato nella discarica ospedaliera, o forse sepolto, non può non evocare qualche riflessione sulla legge 194 e sulla piaga dell’aborto.
L’interruzione di gravidanza è sempre e comunque una tragedia, chimica o meccanica che sia, legale o illegale. Ma c’è un aspetto ulteriormente oscuro di questa piaga, e riguarda le uccisioni che come prevede la legge, riguardino gravidanze oltre il terzo mese, qualora la prosecuzione della gravidanza produca un nocumento alla salute fisica o psichica della donna. Non come erroneamente qualche volta si dice nel caso di gravi malformazioni, ma semplicemente per esempio per una psicopatologia che renda insostenibile la gravidanza. La vicenda di Rossano ha evocato il ricordo forse più tragico della mia vita professionale, che più di ogni altro ha rappresentato una svolta nella mia vita di fede. Venticinque anni fa ero borsista alla clinica psichiatrica dell’università di Torino, e tra le tante incombenze scomode di un giovane aspirante barone c’era quella di effettuare gli accertamenti diagnostici psichiatrici per gli aborti terapeutici alla clinica ostetrica dell’università. All’epoca, da laico dichiarato, e convinto sostenitore della legge 194 (un po’ comunista e un po’ radicale), non avevo esitazioni ad andare a valutare il danno psichico per le donne in gravidanza. È l’escamotage terribile con il quale vengono fatti aborti fino al sesto mese. Firmavo documenti che autorizzavano aborti a ogni mese. I ginecologi chiamavano, io firmavo, dopo aver valutato situazioni anche tragiche. E i feti morivano. Per un periodo sono stato un vero e proprio assassino, un boia che mandava a morte le più innocenti delle creature. Un giorno l’amica pediatra con cui allora dividevo la casa torna dal nido, dicendomi un po’ sconvolta: «Oggi abbiamo avuto in cura un tuo paziente». Non capii subito. Si trattava di un feto che, nonostante l’aborto, era rimasto vivo, in pessime condizioni, ma vivo.
Questo episodio mi fece riflettere molto, anzi, mi sconvolse, sia per la drammaticità della situazione, sia per la sostanziale superficialità della legge, che aveva troppo il sapore parziale di un pretesto. Rendeva me un esecutore testamentario di un testamento di morte. Questa negazione della vita si realizzava in quelle donne soltanto perché qualcuno aveva stabilito che non potevano diventare madri perché malate di mente o tossicodipendenti. Sarebbe stato forse sufficiente che qualcuno avesse sostenuto amorevolmente quelle maternità fino alla fine perché quei bambini avessero potuto avere poi altri genitori. Questo l’ho toccato con mano perché in anni recenti ho sperimentato cosa si doveva fare perché quegli aborti «terapeutici» non venissero realizzati. E neppure quelli cosiddetti di libera scelta fino al terzo mese. Nelle case d’accoglienza del Movimento per la vita, si viene aiutate a diventare madri o per rimanere con il piccolo o per affidarlo ad altre mani accoglienti, ma certo non ucciderlo in quelle esecuzioni capitali. Degli omicidi veri e propri, di cui io sono stato corresponsabile in massimo grado. E con questo faccio davvero una confessione di omicidio, peccato mortale, ma perfettamente legale. Neppure un milione di ore d’impegno con gli amici del Movimento per la vita potrebbero bastare a sanare questa ferita. Ci affidiamo all’infinita misericordia di Dio.
Dopo circa 15 anni da questi fatti, poco meno di 10 anni fa, e dopo aver rincontrato l’umano in Gesù di Nazaret detto il Cristo, Dio fatto uomo, era già nata la nostra comunità di Agape Madre dell’Accoglienza ad Albugnano. Vi venne condotta, provenendo dal carcere, Tania, una ragazza bosniaca gitana di 21 anni, psicotica e agli arresti domiciliari. Era incinta al quinto mese della sua quarta gravidanza, tre delle quali frutto di violenze sessuali da parte del patrigno. Urlava e cercava di piantarsi una forchetta in pancia. Le comunità psichiatriche non la volevano in quanto gravida, quelle madre - bambino non l’accettavano in quanto paziente psichiatrica grave, la Provvidenza volle che arrivasse a noi.

La gravidanza terminò amorevolmente ed è nata, nonostante traumi, droghe e psicofarmaci, una bellissima bambina perfettamente sana, che il nostro Padre Orazio battezzò con il nome di Maria Sole. Oggi vive felice e Tania è ancora una delle colonne della nostra comunità. Tutto è Grazia.

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