Confessione di un italiano: mi sono scoperto a tifare Trap

Devo una confessione onesta e leale al mio Paese: l’altra sera, quando Gilardino ha segnato il gol del pareggio italiano, ho provato una profonda tristezza. Voglio chiarirlo subito, per evitare facili conclusioni: non sono quel genere di anti-italiano snob che tifa sempre contro, come quando per Italia-Romania mezza nazione stava con loro, i poveri romeni eternamente umiliati nelle nostre città da questa popolazione di beceri razzisti. Sono banale: se c’è Italia-Romania, io tifo Italia, e pazienza se risulta un po’ trucido per i rom. Non me ne importa nulla di essere politicamente corretto. Tifo Italia per istinto, non Romania per posa.
Eppure, l’altra sera, è successa questa cosa strana: ho cominciato la partita tifando azzurro e mi sono ritrovato alla fine tifoso dell’Irlanda. Tutto è cominciato quando ho rivisto il Trap prendere posto in panchina e adottare subito il suo primo schema di gioco: acquasanta e pater-ave-gloria. Lo so che è un rito vagamente patetico, ma mi ha riportato di colpo alla cruda realtà: lì, seduto su quella panchina avversaria, c’era un italiano vero, uno dei più italiani di noi. Non sono più riuscito a tifargli contro. Ho cominciato a trepidare con lui. Per lui. Quando poi al suo fianco si è presentato il vice, Marco Tardelli, eroe dell’82, eroe del mio Mondiale, mio perché per me era il Mondiale della gioventù, non ci ho capito veramente più niente. Guardavo l’Italia, provavo a fremere per l’Italia, ma mi scoprivo a esultare quando segnava l’Irlanda. Il tracollo totale alla fine: esultanza smodata al 2-1 dei verdi, delusione clamorosa - come un tram in fronte - al pareggio di Gilardino.
È possibile? È possibile, sì che è possibile. Non ho dovuto correre dallo psicanalista per spiegarmi il mio tradimento. Tutto mi è apparso di una coerenza elementare. Nessuna mossa da voltagabbana: io ho continuato a tifare Italia anche l’altra sera. Soltanto, c’era più Italia in quell’ometto di settant’anni seduto - mai seduto - sulla panchina avversaria che nell’intera spedizione azzurra. Ho rivisto nel Trap tarantolato, che si morde le labbra e si sbraccia come un venditore al mercato del pesce, quel genere di Italia presentabile e rispettabile, sopravvissuta allo sterminio dei luoghi comuni sulla nostra superficialità, la nostra faciloneria, la nostra predisposizione trullallera inconcludente e furbacchiona. Ho pensato che quel tenerissimo nonno italiano, dopo aver vinto tutto, non ha esitato a rifare per l’ennesima volta la valigia, senza spago e senza caciotte, però ancora spinto dalla stessa speranza e dalla stessa passione dei nostri più coraggiosi emigranti. Ho sorriso al pensiero che molti suoi coetanei, con i suoi soldi, sarebbero a svernare su qualche barca di design o su qualche spiaggia dell’Egitto, mentre lui ancora sceglie di farsi venire l’alone sotto le ascelle insegnando il dribbling ad una popolazione di indefessi crossatori. Sì, i pensieri si sono rincorsi e si sono accavallati, mentre il vecchio Trap provava a battere la nazionale e il Paese che ama, per il solo motivo di compiere fino in fondo il proprio dovere. Ho realizzato che con le sue glorie e le sue medaglie altri colleghi accetterebbero di allenare soltanto la nazionale del Paradiso, mentre lui non ha fatto una piega, non si è sentito declassato e depresso, nel ricominciare da capo, dall’abc e dalle astine, in nazioni calcisticamente semianalfabete come Austria e Irlanda. Tutto questo così, obbedendo soltanto a un richiamo ancestrale, senza rincorrere megalomanie tardive, felice semplicemente di esercitare ancora oggi, all’età dei giardinetti, il mestiere che più gli piace, che più gli riesce bene.
Lo confesso, è andata proprio così: sul 2-1 dell’Irlanda, con quel popolo molto trapattoniano in preda al delirio vero, mi sono sentito fiero. Sono gli strani effetti di una stupida partita. In quei momenti, anche se adesso appare così ridicolo, ci ho messo sopra di tutto. L’urlo leggendario di Tardelli, il mio Tardelli, il socio di Scirea, di Gentile, di Cabrini e di Bruno Conti. Ci ho messo sopra pure Capello e Ancelotti, con le loro incredibili vittorie a raffica, proprio là dove li aspettavano tra sorrisetti e diffidenze. Ci ho messo sopra tutta quella dignitosa Italia d’esportazione che sta ricacciando in gola a mezzo mondo i sorrisetti e le diffidenze, i sermoni sociologici e i complessi di superiorità, giocando a viso aperto proprio sul terreno per noi ritenuto ostile e impraticabile, quello della più elementare serietà.
Lo so: confessare tutto questo a mente fredda, il giorno dopo, risulta piuttosto imbarazzante. Ma lo sport è questo, provoca strani effetti, e non c’è niente che si possa fare per evitare il ridicolo. Il luogo comune più liso del settore dice che lo sport è la grande metafora della vita. Come tutti i luoghi comuni ha rotto le scatole, ma come tutti i luoghi comuni contiene una suprema verità. Nel pareggio di Gilardino, nella tristezza del Trap, c’era un po’ la mortificazione dell’Italia in cui credo, e per Italia non intendo la nazionale. Questo dev’essere successo, quando mi sono ritrovato a pezzi per il gol azzurro: era il dispiacere per l’amico che si prende una sberla, nei modi e nei tempi peggiori, proprio quando sembrava dovesse prendersi solo applausi e complimenti. Tutto qui e non me ne vergogno.
Comunque devo dire che l’amaro è durato poco. Già qualche ora dopo, l’italian-style del Trap è riemerso a gomitate. Mai piangersi addosso, mai rassegnarsi. L’Irlanda può ancora arrivare in Sudafrica. E guarda caso, prima ancora di saperlo, la federazione ha già rinnovato il contratto al suo cittì per altri due anni.

No, in fondo Gilardino non ha rovinato niente. Ma c’è di più: all’indomani della strana serata, in tanti mi hanno confessato la mia stessa colpa. Erano tristi per il pareggio azzurro. L’Italia del Trap ha un sacco di amici, in giro per l’Italia.

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