CONTEMPORANEI IN CRISI

«L’arte deve stupire, far discutere, provocare». Lo diceva il presidente francese Georges Pompidou nel 1977, all’apertura dell’avveniristico museo che porta il suo nome. Oggi farebbe fatica a ritrovare nell’arte contemporanea quelle tensioni, quel disturbo, quel fastidio, che ne hanno tenute vive le sorti fino a tutto il XX secolo, da quando Picasso ribaltava la sintassi della pittura e Duchamp introduceva il ready made, fino agli ultimi choc avvistati, il sesso, la morte, lo sberleffo e il dolore (per intenderci, Mapplethorpe, Serrano, Koons e Hirst).
Nel primo decennio del nuovo millennio, dopo essere rimasta traumatizzata dal crollo delle Torri Gemelle e aver ammesso l’inefficacia della finzione davanti alla realtà, l’arte si è affievolita, perdendo per strada quei traumi necessari a rompere con il passato. Persino le provocazioni studiate per far notizia sui giornali lasciano il tempo che trovano o durano lo spazio d’un mattino. Sono più i politici a essersi indignati per il dito medio di Cattelan, rispetto all’opinione pubblica milanese che convive, indifferente, con la buffa statua lasciata lì a piazza Affari. Quanto alla cacca di Paul McCarthy, che adornò la scorsa Biennale di Carrara, a giudicare dai 9mila visitatori non si può certo invocare il richiamo scatologico per le masse.
In Italia e nel mondo il contemporaneo fa numeri bassissimi di visitatori, in particolare negli anni pari senza l’attrattiva della Biennale di Venezia, che nel 2009 era stata la mostra più visitata con una media di 2.223 persone al giorno per un totale di quasi 400mila. Il Giornale dell’Arte ha appena pubblicato una classifica che non lascia dubbi in proposito: tirano l’antico e il moderno, fiacco è l’attuale. Gli esperti del settore contesteranno tale valutazione, spiegandoci che da sempre le nuove proposte sono difficili, ostiche e si scontrano con il pregiudizio del pubblico poco propenso a sforzarsi di fronte a ciò che non colpisce al primo impatto. Risposta troppo semplicistica. Non interessano più le trovate banali, senza progettualità, leccati esercizi di stile accademico, autoreferenziali e sciatti. La mostra d’arte contemporanea più gradita del 2010 risulta quella di Marina Abramovic al MoMA di New York, con una media di 7.120 visite al giorno. La grande performer serba, ultima erede della rivoluzione degli anni ’70, continua a far discutere nonostante l’età, si mette in gioco, offre il proprio corpo e la propria sofferenza allo sguardo, insomma è arte vera e di questo l’osservatore si accorge, smascherando i falsi miti del presente di cui sono pieni i nostri musei.
Un dato che non si avvicina al boom giapponese di Hasegawa Tohaku, la cui retrospettiva per i 400 anni dalla morte ha totalizzato oltre 12mila visitatori al giorno al Tokyo National Museum. Il pubblico del Sol Levante, letteralmente affamato di capolavori, ha mostrato di gradire anche gli Impressionisti provenienti dalla Gare d’Orsay (10.757 presenze quotidiane). Record francese invece alla pittura fiamminga del Seicento, mentre a Londra ha sbancato Van Gogh. Chi crede che la mancanza di sensibilità sul contemporaneo sia problema prettamente nostrano, di un Paese troppo condizionato dall’antico, è servito...
La rockstar dell’arte italiana del 2010 è stata Caravaggio, che solo con la mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma ha registrato quasi 600mila visite. Il 2011 vedrà il trionfo del Tintoretto, l’invitato più atteso all’imminente Biennale di Venezia, per un’intuizione della direttrice Bice Curiger che ritiene il suo lavoro sulla luce una sorta di viatico al presente. Smentendo il bluff del site-specific, la curatrice «rispolvera» tre capolavori di oltre 400 anni fa, patrimonio della Chiesa di San Giorgio Maggiore e della Galleria dell’Accademia. Ovvero, l’Ultima Cena, Il trafugamento del corpo di San Marco e La creazione degli animali. Sono loro, e non le installazioni delle arti-star, il clou annunciato della kermesse lagunare.
Dopo Caravaggio, il pubblico italiano ha premiato nel 2010 i moderni: Calder, Dalì e Hopper. Palati raffinati sull’antico, i frequentatori dei nostri musei hanno apprezzato le retrospettive di Bronzino, Cima da Conegliano e Chardin, non certo roba facile o nazionalpopolare. Molto bene è andata la Biennale di Architettura. Per trovare un artista almeno in parte contemporaneo (Roy Lichtenstein, peraltro scomparso) bisogna scendere diverse posizioni della classifica. Né incoraggiano i 90mila finora in coda per Damien Hirst a Firenze, visto che se ne aspettavano oltre 200mila.
Cosa è successo all’arte contemporanea? Perché non riesce più a stupirci e a interessarci? Una risposta, che suona da vaticinio, la diede il saggista John Walker già a metà anni ’80: «il valore trasgressivo dell’arte moderna è ormai praticamente svanito e in effetti si può sostenere che essa sia la cultura ufficiale delle nazioni occidentali.

Quei caratteri di critica sociale, opposizione politica, radicalismo estetico e intransigenza un tempo propri di certe avanguardie artistiche sono stati oggi rilevati da alcuni dei giovani musicisti che operano nel campo della musica pop o rock». Anche in questo campo, oggi, l’innovazione si è ridotta, ma mai quanto nell’arte. Per provare ancora qualche brivido, tocca in ogni caso riesumare l’anima di Caravaggio e Tintoretto.

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