No, non può essere un dittatore centrafricano alla Amin Dada. Veste abiti grigi da professore di diritto, evita vezzi e pelli di zebra da Caligola abbronzato, sfoggia una calvizie rassicurante da Gandhi paffuto. Eppure la Corte internazionale dell’Aia si ostina a chiedere per lui il mandato di cattura internazionale. Bah, saranno i soliti europei razzisti e colonialisti.
Così devono aver pensato ai vertici della Cmc di Ravenna quando hanno vinto l’appalto per la costruzione dell’hotel Burj Al-Fateh. Una «vela» di cemento e vetro di 90 metri che sorge nel centro di Khartoum, capitale del Sudan. Un cinque stelle nella zona di peggior emergenza umanitaria del pianeta. Un edificio inaugurato due giorni fa alla presenza dei finanziatori libici di Lafico (società della famiglia Gheddafi e vecchia conoscenza in casa Fiat) e appunto del presidente sudanese Omar Al-Bashir. Persona squisita, ospite a modo. Che dal 14 luglio sia ricercato per genocidio è un dettaglio trascurabile. Di sicuro meno interessante dei 110 milioni di euro che finiranno nelle casse della Cooperativa Muratori e Cementisti. Mica collanine di corallo ed elefantini d’ebano.
Questione di marketing ad ogni prezzo e di virginali cadute dalle nuvole. La storia la scova il quotidiano La voce di Romagna, perché proprio nessuno pareva essersi accorto che Al-Bashir è considerato il responsabile di 300mila morti e 4 milioni di sfollati nella regione del Darfur. D’altronde al buffet di inaugurazione, nell’appartamento presidenziale in pietra d’Istria, si limitava agli stuzzichini e non sgranocchiava femori umani, chi l’avrebbe mai detto? Non se ne era accorto il presidente della Cmc Massimo Matteucci, che a chi gli chiedeva conto dell’affare politically uncorrect rispondeva candido: «Uh, non sapevo. Però anche per Al-Bashir vale la presunzione d’innocenza». Garantismo disinteressato, pragmatismo da capitalista e buonanotte alla Coop.
Però, se si legge il codice etico della Cmc, ci si accorge che hanno formalmente ragione. Articolo 17, comma 2: «Il Gruppo non intrattiene relazioni dirette o indirette con persone quali sia conosciuta o sospettata \ l’attività legata a riciclaggio, traffico di droga o usura». Il genocidio non è contemplato. Illuminante anche la mission della società: «Dimostrare la consapevolezza e la responsabilità di costruttori che hanno a cuore la sicurezza dell’ambiente fisico e sociale». E pazienza se un giudice asserisce che Al-Bashir «ha pianificato l’annientamento di tre gruppi etnici» cristiani e animisti supportando i Janjaweed: «diavoli a cavallo» che stuprano e menano il machete, mica un gruppo reggae che suona i bonghi a Milano Marittima davanti a una piadina.
Il confine tra affari e morale è labile. Dal 2004 al 2006 l’export italiano in Sudan è aumentato dell’80% e sono in tanti i distratti che dimenticano come Al-Bashir abbia preso il potere nell’89 con un golpe, come abbia introdotto la sharia islamica e come collezioni nemici e cariche. Capo di Stato, premier, comandante dell’esercito, ministro della Difesa, maresciallo supremo. Gli manca la qualifica fantozziana di «Grand Ingegner Mascalzon» e fa en-plein. Eppure finché un tribunale non gli consegna la patente di genocida, formalmente si possono fare affari col suo beneplacito e invitarlo a bere un drink. Anche se è al primo posto nella classifica dei peggiori dittatori, davanti a Mugabe o Kim Jong-Il; e anche se si è una cooperativa che si rifà ai valori di solidarietà fra popoli e lavoratori.
L’euro non puzza e non puzza nemmeno la Nuova Sterlina Sudanese (per forza, è nata nel 2007). Solo un consiglio alla filiale dello Swaziland della Cmc: lì il re Mswati III ha proposto di «sterilizzare e marchiare» i malati di Aids. Forse è bene ricordarlo, al prossimo vernissage tra tartine e chardonnay.
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