Copenaghen s’inchina all’islam Prima le scuse, poi una moschea

Quattro anni dopo la pubblicazione delle vignette danesi sul quotidiano Jillands-Posten, 4 anni dopo la pubblicazione della lettera di scuse del direttore di allora, Carsten Juste, a Copenaghen va in scena un nuovo caso di multiculturalismo sbilanciato in favore dell’islam. Stavolta in municipio, dove la maggioranza socialdemocratica ha approvato il delicato «progetto moschea»; in via definitiva. Al di là dei 2.000 metri quadrati di capacità, della cupola azzurra di 24 e dei due minareti di 32 metri che si sistemeranno nel nord di Copenaghen, in gioco ci sono anche altre questioni. Quella dei finanziamenti, per esempio. Di provenienza iraniana. E il richiamo a una maggiore cautela del mondo politico che autorizza la costruzione di edifici religiosi senza considerare chi sarà poi a gestirli. Per la stampa locale, la moschea dovrebbe sorgere su un terreno di proprietà dell’ambasciata iraniana.
E anche i 6 milioni di euro utili alla costruzione arriverebbero da Teheran. Secondo l’architetto, Bijan Eskandani, i fondi non sono però riconducibili direttamente al governo di Ahmadinejad, poiché vengono gestiti da «due o tre ricchi imprenditori privati». Intanto, nel silenzio quasi generale del mondo politico, Lars Hedegaard, presidente della Società stampa libera danese, evidenzia i rischi insiti nel progetto. O, meglio, nei promotori. Secondo alcune sue fonti, l’associazione promotrice, Ahlul-Bait, sarebbe strettamente connessa ai vertici delle Guardie della rivoluzione iraniana, vicine al presidente Ahmadinejad, inserendo così un nuovo elemento di dibattito tra chi sostiene che saranno i musulmani danesi ad autogestirsi e chi dice che invece la moschea sarà la longa manus di Teheran in Europa. D’altronde la vicinanza di paesi come l’Iran, o di altri regimi di natura prevalentemente sciita, non è mai mancata ai musulmani danesi. Nel 2005, visti i tentennamenti di Copenaghen di fronte al caso delle vignette, l’allora ministro del Commercio iraniano annunciò che non sarebbe stato più possibile chiedere licenze per importare prodotti dalla Danimarca, minacciando di bloccare l’interscambio commerciale tra i paesi che ammontava a circa 280 milioni di dollari l’anno. Una dimostrazione di potere che oggi ha reso la Danimarca molto più conciliante con l’islam. Il «sì» alla moschea, pronunciato i primi di settembre, è stato largamente considerato un gesto di avvicinamento ai musulmani - circa 300.000 persone nella sola Copenaghen, di cui 30.000 di osservanza sciita - e finora solo l’estrema destra ha promosso manifestazioni pubbliche di dissenso. C’è pure chi prova a rileggere il caso delle vignette, che ha generato manifestazioni di protesta nel mondo islamico, tutte ben architettate a tavolino da un noto imam estremista oggi deceduto. Quell’episodio ha lasciato all’occidente un gigantesco senso di colpa, confermato dalla scelta di non pubblicare le vignette nell’atteso «The cartoons that shook the world», il libro edito dalla Yale University Press in uscita a novembre. Come se un libro che parla di un quadro non avesse diritto ad averlo pubblicato nella pagina a fronte. Ma se i politici di estrema destra chiedono un dibattito, le associazioni islamiche non intervengono neppure in merito alla questione «moschea», né sulle antiche «vignette». Hanno già intascato la vittoria. E quando si porta a casa il risultato, come nel calcio, diventa difficile prendersela con l’arbitro. Poco importa, dunque, se un giudice della Corte d’appello ha scagionato il Jyllands-Posten dalle accuse di vilipendio alla religione. A Copenaghen i turisti si fanno a malapena qualche domanda alla vista di volantini che raffigurano i minareti di una moschea blu con due spade incrociate. Proseguono per la strada dei negozi, magari incrociano la sede del Jyllands-Posten con lo sguardo.

Qualcuno segnala agli amici di aver già sentito quel nome e invita il gruppo, se non a una riflessione, almeno a un’occhiata distratta. Mentre l’islam ha imparato a trarre vantaggio dalle ingenuità commesse dall’occidente in casa propria. Ingenuità, forse, come queste.

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