La coppa che piaceva a Herrera: «Perché comincia per Inter...»

Che cosa fosse quell’Inter, che cavalcava da regina la metà degli anni Sessanta, per me allora giovane cronista, transitato da Tuttosport al Corriere della Sera, è rimasto un miracolo di funzionalità permanente nello scenario italiano, europeo e intercontinentale. Angelo Moratti era un presidente che, da vero grande capo, parlava con i giornalisti (ma solo d’alto grado) all’incirca due volte l’anno: alla vigilia della nuova stagione agonistica e in coda alla medesima. Italo Allodi gestiva da par suo gli affari di mercato e di pubbliche relazioni della famiglia nerazzurra. Helenio Herrera era l’allenatore con microfono autorizzato e innovatore di un sistema complesso: dagli allenamenti in “interval training” al “taca la bala”, alla capacità di trasmettere al pubblico delle gradinate e specialmente della più amata curva di San Siro una sorta di febbre che portava al delirio. Tanto che gli striscioni di allora, appesi alle murate dello stadio milanese, recitavano «Sia la sorte azzurra o nera/ Viva l’Inter viva Herrera». E molto più tardi, parlandone prima con l’Artemio Franchi presidente federale e poi con Gianni Agnelli, raccolsi commenti che in qualche modo coincidevano. «Herrera ha inventato, in buona fede, un fenomeno magico e pericoloso, quello degli “ultras”, che un giorno avvelenerà il clima degli stadi».
Tant’è. E comunque quando quell’Inter che vinceva tutto e poi si giocava con la regina di Argentina, nel suo caso la splendida e torbida Independiente, la Coppa Intercontinentale, tutti noi giornalisti vivevamo le nostre giornate di avvicinamento al doppio evento (andata e ritorno) in un costante stato di allerta, ventiquattr’ore su ventiquattro. E se nel frattempo qualcuno di noi cronisti raccoglieva nella lunga attesa l’intervista “interessante”, cioè da titolo poi stampato sul giornale, di un qualche giocatore interista che a Herrera andava di traverso, don Helenio squalificava quel cronista a tempo, cioè l’interessato non avrebbe potuto interpellarlo per tutto il periodo della squalifica. Io ne beccai una di due mesi perché avevo dato giusto spazio a una dichiarazione di Armando Picchi, il quale condivideva almeno in parte l’idea tattica del “difensore fluidificante” assolutamente contraria all’ideale herrereriano (a meno che non intervenisse la celeste eccezione di Facchetti).
Picchi, il capitano di quello squadrone che stava scalando il mondo del calcio con ogni mezzo, non smentì mai l’intervista che mi aveva rilasciato, perché Armando era agli ordini di Herrera ma anche, da buon livornese e da uomo d’onore, ai propri. Fu il vecchio compianto amico Peppino Prisco che, giusto alla fine d’una serata vincente di coppa, mi riavvicinò a Herrera, quasi presentandomi. E il mago mi disse sorridendo: «Tutto bene, amici come prima, venga pure ad Appiano quando vuole». Ma erano trascorsi giusto due mesi dal giorno in cui lui mi aveva squalificato.
Mi sto soffermando su quei tempi di rose e di spine perché quando oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, tento di entrare negli alambicchi del Mondiale per Club in scena ad Abu Dhabi, cerco un’Inter e un’atmosfera che sono parenti molto lontane da quelle dei duelli rusticani italo-argentini, muro contro muro, sberla contro sberla, che persino alle tribune stampa sapevano comunicare un tipo di emozione spontanea, di partecipazione non complicata agli esiti di sfide in fondo esterne ma secche, risolutive e non precedute dalle contaminazioni antisportive del gossip, dalle voci odierne su chi va e chi viene, sulle sporche evoluzioni di un calcio-business e dintorni molto più desolanti, almeno a parer mio, che in sintonia con lo spirito bello che porta a vivere i giorni di vigilia dell’oggi o la va o la spacca.
Di recente Sandro Mazzola, uno dei campionissimi dell’Inter di Herrera, ha raccontato a Sport Week della “Gazzetta” le avventure anche a «botte e sbornie d’Argentina» di quelle sue indimenticabili Coppe Intercontinentali. Verissimo: il cinismo professionale dei calciatori, i fuochi popolari, gli interessi e le rudezze esistevano anche negli anni Sessanta. La storia del mondo insegna che mai sono esistiti popoli perfetti, epoche perfette, stati di salute fisica e morale perfetti di genti create per essere imperfette. E tuttavia, per limitarci ai palcoscenici del football, credo di avere partecipato alla favola di una ormai quasi antica Coppa Intercontinentale che poteva anche puzzare di arbitraggi sospetti, di simulazioni e di episodi censurabili, ma che quell’Inter seppe trasformare in una festa corale per Milano e per l’Italia intera. Erano allora diversi e più puliti i profumi che annunciavano le due partite dell’anno: quella oltre oceano e l’altra entro i Navigli.
Una volta, quando io avevo già scontato la mia squalifica herrereriana, don Helenio mi disse sorridendo: «Lei sa perché tutti noi, dalla società, alla squadra, al pubblico, a me, teniamo tanto alla Coppa Intercontinentale? Perché comincia per Inter e quindi deve essere nostra».

Gli brillavano gli occhi. Quel mago, superpremiato da Angelo Moratti, sapeva fingere e anche mentire, se gli sembrava il caso. Ma capii che in quel momento, nello spogliatoio nerazzurro ormai deserto, mi stava offrendo la sua verità.

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