«Coraggio Fignon, ma non parlare di doping»

Avrebbe potuto fare l’accoppiata Giro-Tour, se Francesco Moser non gli avesse sfilato di dosso - nell’ultima tappa Soave-Verona - la maglia rosa. Fu una grande sfida, quella del 1984 tra Fignon e Moser. Adesso il francese, vincitore di due Tour de France, di un Giro d’Italia, una Sanremo e una Freccia Vallone, è chiamato a vincere la battaglia più dura e difficile: quella contro il cancro che da alcuni mesi ha aggredito il suo stomaco. «È un cancro in stato avanzato, perché ci sono metastasi al pancreas. Non so quanto mi resta da vivere, ma combatterò e riuscirò a vincere anche questa sfida». Queste le parole del corridore parigino, icona ciclistica degli anni Ottanta. L’intellettuale, il filosofo, il corridore cittadino, con quei suoi occhialini di metallo tondi che lo facevano tanto professorino.
Oggi lui è un opinionista tivù per France 2, e ad una tivù, TF1 ­ il primo canale francese ­ ha consegnato l’intervista verità che andrà in onda domani. Parole che scuotono il mondo del ciclismo, sia per la malattia che ha colpito uno dei campioni più forti e amati, sia per quel ventilato legame tra malattia e le “cure” effettuate durante una carriera costellata da un’ottantina di vittorie. «Una correlazione tra il cancro e il doping sportivo: chi può dirlo? ­ si domanda il corridore -. Anche i medici mi hanno detto chiaramente che sarebbe troppo semplice un legame. E poi ci dovrebbero essere una dozzina di casi simili, visto che ai miei tempi tutti facevano le stesse cose».
Ai suoi tempi c’era anche Francese Moser, che il 10 giugno del 1984 gli soffiò un Giro d’Italia nella crono conclusiva. Ma il campione trentino, che questa mattina accompagnerà all’altare la figlia Francesca, smorza e di molto le parole più che insinuanti dell’ex rivale francese. «Tutti facevamo le stesse cose? Io so quello che facevo io, non certo quello che facevano lui o gli altri ­ ci dice -. Una cosa è certa: la notizia della malattia di Laurent mi ha addolorato molto. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato un anno fa, al Tour de France. Tra noi c’è sempre stato rispetto e stima reciproca, anche se ricordo che all’epoca del mio successo al Giro, divamparono polemiche per l’elicottero che a detta del suo staff mi agevolò nella cronometro finale, o meglio, penalizzò lui volandogli davanti a bassa quota. Furono reazioni di chi non aveva accettato la sconfitta, e dopo quel fatto però, i nostri rapporti tornarono nella normalità».
Quindi, non tutti facevate le stesse cose? «Ripeto, io so quello che ho fatto io. Non ho problemi a dire che agli inizi degli anni Ottanta feci ricorso all’autoemostrasfusione, che all’epoca però non era considerato doping. Lo ammisi e non la praticai più. Fine. Dire cosa facevano gli altri non era umanamente possibile. Certe cose non si possono dire.

Io comprendo il dramma che sta vivendo Laurent e lo ripeto, mi dispiace tantissimo. Spero che vinca questa battaglia, che vale più di ogni Giro o Tour. Per il resto voglio solo credere che siano parole superficiali dettate solo da un momento tremendamente difficile».

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