Un cantante che diventa deputato, una cantante che rinuncia al seggio. Nella storia "senza fine" di Ornella Vanoni, si nasconde nelle pieghe anche una vicenda di porte girevoli che, quasi quarant'anni dopo, consegna una lettura fuori dagli schemi.
Alle elezioni politiche del 1987, una Vanoni al culmine del successo artistico disse no a Bettino Craxi che voleva candidarla al Parlamento. Anche il leader del Psi aveva raggiunto la vetta in quel tempo con la guida di due governi di pentapartito che avevano riaffermato il ruolo dell'Italia. Ma Ornella si sfilò con una lettera affettuosa ("lavoro troppo e seriamente") che tuttavia non rinnegò il suo sostegno alla causa socialista. A Montecitorio entrò invece Gino Paoli, uno degli uomini più importanti della sua vita, che accettò la candidatura del Pci, anche se preferì aderire al gruppo della Sinistra indipendente che allora faceva molto chic.
Dei due fu senz'altro il cantautore genovese quello che intraprese la strada più facile: andare sotto l'ombrello del grande partito della sinistra, l'opzione naturale per artisti e intellettuali. Una scelta conformistica, visto il generoso lasciapassare che il partito comunista garantiva a tutti i livelli. Era senz'altro meno agevole dirsi socialisti quando nell'ambiente dello spettacolo il totem era il segretario Pci Enrico Berlinguer. Craxi, invece, era già odiato come il tardo mussoliniano con gli stivali neri (copyright Forattini) che aveva piegato la Cgil e l'operaismo militante con il referendum sulla scala mobile.
Certo, soprattutto durante il quadriennio 1983-1987 a Palazzo Chigi, non mancarono le folgorazioni sulla strada del garofano, visto come una scorciatoia verso carriere impensabili. Non fu il caso di Ornella Vanoni, che già nel 1979 aveva cantato per il leader socialista al comizio al Palalido di Milano. L'Italia era annerita dagli anni di piombo e Craxi era ancora lontano dalla scalata che lo portò alla guida del Paese. Bettino non era onnipotente, soltanto un leader emergente di un partito al di sotto del 10% che tentava di farsi largo tra Dc e Pci, i due monoliti del dopoguerra.
Quel 1979 segnò la fine dei governi di solidarietà nazionale con democristiani e comunisti, esperimento fallito con il sequestro Moro che vide Bettino alfiere della trattativa con le Br per salvare la vita dell'ex presidente del Consiglio in ostaggio. La Vanoni salì sul palco milanese non per calcolo politico o per fiuto, ma per un'altra ragione: era già socialista dai tempi di Nenni. Si sono sbizzarrite, con la sua scomparsa, tante tesi sulla simpatia iniziale per Forza Italia, poi diluita tra un effimero sostegno a Mario Segni e una candidatura nel 2011 a Milano in una lista Moratti con la miseria di 36 preferenze.
Quisquilie dinanzi a una carriera straordinaria di un'icona della musica italiana.
Quel seggio rifiutato a Craxi resta a garanzia del suo basso grado di politicizzazione, a differenza di tanti altri colleghi-militanti. Attraversò gli anni '70-'80-'90 senza essere comunista o fare la comunista. Era unica, non ne aveva bisogno.