COROT La natura come religione

Dopo trent’anni di silenzio, si apre a Ferrara una grande rassegna sul pittore francese

Seduto tra due epoche, sovrano del tempo come un imperatore in bronzo che contempla le ere delle pittura, e non solo i due secoli che poté dominare, Jean-Baptiste Camille Corot, già mercante di stoffe, già pittore dilettante, innamorato dell’Italia e delle italiane (delle puttane, par di capire dalle sue lettere), ma avvinto dal modo di amare delle donne francesi, Jean-Baptiste Camille Corot è un sovrano della pittura.
Uno di quei sovrani che la storia si sforza di classificare nei suoi cassettini ordinati, e quindi Corot annuncia, prepara, anticipa, e serve a introdurre la gran parata dell’impressionismo, nell’idea assurda e innaturale che la storia dell’arte si accenda soltanto davanti alle scintille di un futuro che poi arriva, e quando arriva davvero, spaventa e atterrisce. La gran corsa infatti è finita, ed eccoci qua.
Corot è buono, Corot è generoso: portategli un quadro da vedere; portategli un quadro malfatto, un brutto paesaggio, ve lo rifarà da cima a fondo, ve lo firmerà, se volete, lo assegnerà al tempo, lo nobiliterà. Così è Corot. In casa sua, raccontava Jean Renoir per averlo sentito raccontare da suo padre Auguste, si mangia benissimo, una sola «noce di burro» per condire, e la cuoca ha il suo stesso cognome ma non è parente, Marie Corot.
Per Corot il paesaggio è insieme visione e stato d’animo, è antico valore ideale e trascorrere di nubi, è misura e costruzione, è natura e memoria. Memoria soprattutto. Kandisnky amò Corot, i cubisti amarono Corot. Perché? Perché Corot non sta da nessuna parte e se le sue donne sono come le donne di Vermeer, o come quelle di Velázquez, sospese in un limbo dove la bellezza umana e quella della pittura non hanno nessun confine, i suoi paesaggi stanno fuori e dentro l’impressionismo, prima, durante e dopo, come si vuole, ma vivono eternamente perché rappresentano il paesaggio, così come la natura stessa sembra averlo concepito. Un pensiero dipinto.
Le sue foglie vibranti ricordano tanti momenti della pittura di ogni tempo, da Venezia a Parigi, da Ferrara a Fointainebleau, Seicento, Settecento, Ottocento, Reynolds, Gainsborough e Constable, prima ancora dei francesi. Sono mobili e luminose. Come fu Corot. Viaggiatore stupefacente, dalla giovinezza alla vecchiaia, sembra non avere pace, traversa campagne e paesi, si ferma due giorni, tre giorni, animato dall’inquieto fremito della sua natura, allo stesso tempo osservata e immaginata, descritta e sognata. Nel suo Studio, uno dei capolavori della rassegna ferrarese che apre sabato a Palazzo dei Diamanti (a cura di Vincent Pomarède, catalogo Ferrara Arte), una bruna modella pensosa siede di fronte al cavalletto dove poggia proprio un paesaggio: è un ritratto e un’allegoria della pittura, variante gentile dell’Atelier di Gustave Courbet, dove lo stesso principio - pittore, pittura, figura, paesaggio - contiene valori politici e morali. Per Corot la natura è un libro immenso dove le modelle posano insieme con le ninfe che furono di Claude Lorrain, di Nicolas Poussin, di Domenichino. In questo la sua modernità sfiora quella dei tedeschi-romani, da Arnold Böcklin a Max Klinger, che, per ultimi, osarono contrastare la rumorosa modernità dei cafè e dei balli, dei treni sferraglianti, per dare un’estrema immagine di quel che la natura era stata nei secoli antichi. Luogo eletto dove l’uomo e i suoi miti hanno la stessa ragion d’essere, la stessa appartenenza.
Diversi sono i ritratti e le figure esposte alla mostra, che appare a trent’anni dall’ultima retrospettiva dedicata al maestro in Italia. Il primo è l’Autoritratto degli Uffizi, immagine destinata alla famosa raccolta medicea, in cui la formazione dell’artista è ancora perfettamente legata al neoclassicismo. Corot era nato pochi mesi dopo l’inizio della campagna di Napoleone in Italia, nel 1796. Fu tra i primi a lavorare nelle foreste di Barbizon, praticando un plein air che cominciava all’aperto ma finiva in studio. Infatti la memoria serve a completare, rifinire, aggiustare: saranno i “ricordi” a concludere l’operosissima carriera che evitò le strade ufficiali, i concorsi, i premi, per affermarsi con la sola presenza dei quadri. «A la tête de l’école moderne du paysage, se place M. Corot», scrive Charles Baudelaire nelle Curiosités Esthétiques, commentando il Salon del 1845. «Evidentemente questo artista ama sinceramente la natura, e la sa vedere con tanta intelligenza quanto amore».


A settantacinque anni, così Corot riassunse la sua vita: «Ho lavorato nel commercio \ paesaggi \ E dopo mi sono lanciato da solo nella natura, ecco tutto»..

LA MOSTRA
Corot. Natura, emozione, ricordo. Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Dal 9 ottobre all’8 gennaio 2006.

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