RomaIl simbolo più forte che la vittoria sia principalmente della Lega sta nel suo leader Umberto Bossi. Lui, il Senatùr, è rimasto seduto al posto del premier e da lì ha seguito i lavori dellAula che ieri ha issato di un altro metro la bandiera del federalismo. Neppure quando Berlusconi ha fatto il suo ingresso alla Camera Bossi sè mosso di un millimetro. E il Cavaliere non se lè certo presa, anzi: gli si è seduto accanto dopo averlo abbracciato. Il sogno leghista è una gimkana infinita ma ieri sè superata unaltra curva pericolosa. Il via libera al disegno di legge delega sul federalismo fiscale è un balsamo sui muscoli degli uomini del Carroccio che vedono allorizzonte la realizzazione di un sogno; è una coppa di champagne per tutti i parlamentari della maggioranza che hanno limato il testo in modo da ottenere una riforma condivisa; ma è anche sale sulle ferite di Franceschini e Di Pietro che, decidendo il primo per un «ni» e il secondo per il «sì», pagano uno strappo interno destinato a pesare sulle rispettive leadership.
Che fosse una giornata storica per la Lega lo si era capito da subito, da quel pullman arrivato a Roma apposta dal profondo nord. Dentro, una cinquantina di militanti padani in arrivo da Veneto, Piemonte e Lombardia, pronti a festeggiare levento. Tra loro pure la mamma del presidente dei deputati del Carroccio Roberto Cota. In aula la tribuna era gremita di supporter leghisti, in un tripudio di cravatte verdi. «Presenti 549, votanti 354, astenuti 195, favorevoli 319, contrari 35: la Camera approva». E giù applausi e occhi lucidi. Qualcuno ha tirato fuori pure una bandiera ma è arrivata subito la bacchettata del presidente Fini. Un Fini soddisfatto perché «È positivo che una riforma strutturale come lintroduzione del federalismo fiscale sia approvata dopo un ampio e approfondito dibattito, senza una radicale contrapposizione tra i due schieramenti». E in effetti il provvedimento, che ora dovrà tornare al Senato ma che presumibilmente verrà approvato definitivamente a metà aprile, è frutto di un profondo e intenso confronto con lopposizione.
Risultato: il governo ha incassato lok dellItalia dei valori e una fiduciosa astensione del Partito democratico. A fare la parte del «signor no», soltanto lex alleato Casini con la sua Udc e un grappolo di dissidenti piddini e italiavaloristi. Decisamente soddisfatto il ministro Calderoli per il quale «Si è trattato di unaltra tappa, la più alta da scalare. Alla Camera sembrava non semplice e invece mi pare che lavorando, lavorando, lavorando un risultato sia arrivato». Dietro quel «lavorando», ripetuto tre volte, ci sta lammissione di qualche concessione alla minoranza. E forse pure la scelta di vestirsi come ieri racconta, anche esteticamente, una volontà di andare incontro a qualche tesi dellopposizione. Calderoli, tolta la giacca blu, sembrava un tricolore semovente: pantaloni rossi, camicia bianca, cravatta verde. Ma il provvedimento appena approvato è soltanto un tassello di un grande mosaico; è la cornice di un quadro che poi verrà riempito dai decreti attuativi che verranno emanati dal governo entro due anni dal via libera definitivo del Parlamento. Di fatto resta una giornata storica, suggellata dallemozione del ministro Maroni che ha ammesso: «È una delle giornate più bella della mia vita politica, finalmente ci siamo. E stasera si festeggia con prosecco di Valdobbiadene, lo spumante dellOltrepò pavese».
Chi non sa se brindare, invece, è Franceschini. Scelta la benevola astensione motivata dallaver contribuito a modificare il testo originario, il leader del Pd ha pagato la fronda di undici dei suoi. Furente, ha provato a riallinearli: «Quello sul federalismo non è un voto di coscienza, perciò è grave se alcuni parlamentari dissentono dalla linea del gruppo», ha sbottato. Degli undici ribelli, Pierluigi Mantini e Furio Colombo hanno tenuto duro e gettato alle ortiche la disciplina di partito. Per loro, pollice verso e un grattacapo in più per il leggenDario. E nellesercito dellopposizione pure fra le truppe dellIdv sè segnalata una diserzione: Pino Pisicchio, al quale il «sì» di Di Pietro proprio non è andato giù. «Non voto, non posso coartare le mie convinzioni».
Resta il «no» secco di Casini che a testa bassa ha commentato: «È solo uno spot per la Lega».
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