Il corsaro che inventò la Loren

L’ultima volta che era apparso in pubblico in Italia fu alla Mostra del Cinema di Venezia, un settembre di nove anni fa. La giuria aveva decretato il Leone d’oro alla carriera a Sofia Loren, ma problemi cardiaci avevano sconsigliato all’attrice di volare dagli Stati Uniti all’Italia e così quella sera al suo posto in sala c’era lui, Carlo Ponti, il marito. Al momento clou della cerimonia salì dunque sul palco un omino magro magro, il passo faticoso, l’eloquio difficile, la lacrima facile e ci volle un po’ perché il pubblico identificasse in quella figura così evanescente colui che era stato il corsaro, e anche un po’ lo squalo, del cinema italiano, il produttore che non leggeva i copioni e strapazzava i registi, l’uomo d’affari che ironizzava sulle pretese economiche degli «intellettuali» e perciò era restio a pagarli, il seduttore brutto, ma potente, piccolo e intelligente, cinico e colto che non credeva in nulla, l’uomo a cui si doveva l’impietosa definizione coniata da Valerio Zurlini: «Sotto un aspetto sgradevole, nasconde un cuore di pietra». Nello spazio di pochi minuti, quel povero vecchio che si commuoveva e ringraziava in nome della moglie e che in quel nome in fondo si annullava, diede a Carlo Ponti ciò che una vita ricca di successi e di riconoscimenti non era mai riuscito a dargli: il calore e la simpatia della gente, un brivido di commozione, il rispetto che circonda la fragilità.
Non era mai stato simpatico agli italiani Carlo Ponti. Come tutti i vincenti l’aveva messo in conto, e va detto a suo onore che non aveva mai fatto nulla per mascherarsi, per far finta di essere diverso. Ma l’antipatia nei suoi confronti non nasceva solo da uno stile brusco e disinvolto negli affari, un’indubbia intelligenza che si faceva sprezzante quando doveva giudicare gli altri produttori, italiani e stranieri, che gli facevano concorrenza e che lui, dall’alto di buoni studi e buone letture giudicava, più o meno, dei selvaggi. Rimane memorabile il pettegolezzo che fece su Barry Belabang, presidente della Paramount: «Gli ho proposto di fare Ulisse. Mi ha detto: “Assicurati i diritti dell’opera. Chi è l’agente di Omero? Lo conosci?”». No, di più, e psicologicamente di più sottile, c’era la storia con la Loren. Quando si erano messi insieme, lei aveva intorno ai sedici anni, lui era intorno ai quaranta, era già sposato, aveva già due figli, era l’Italia degli anni Cinquanta, come poteva essere simpatico uno così?
Fra i tanti miracoli della sua carriera, di due Ponti può andare legittimamente fiero. Uno fu quello di trasformare una prosperosa promessa fisica in un talento artistico: la Loren aveva tenacia prussiana sul lavoro e volontà di sfondare, ma senza il suo aiuto, i suoi consigli, la sua esperienza, difficilmente avrebbe raggiunto quelle dimensioni mitiche che ancora oggi la circondano. L’altro è proprio legato al rapporto fra i due, a come avrebbe potuto evolversi in un’Italia che fra anni Cinquanta e anni Sessanta andava sperimentando i primi scossoni sociali e morali, e a come invece fu intelligentemente anche se faticosamente portato avanti, sempre più mettendosi lui dietro le quinte, sempre più «santificando» una figura di moglie-madre-figlia esemplare, e il tutto senza corna andata e ritorno, senza, e può sembrare un paradosso, eccessi divistici: niente feste, party, sbronze, piscine, scenate...
Il punto di svolta fu La ciociara, grazie al quale la Loren passò dal rango di attrice bella allo status di attrice brava, ma soprattutto cominciò ad essere percepita dall’opinione pubblica non più come la moglie-concubina di chi si era fatto annullare un matrimonio dalla Sacra Rota per poi impalmarla per procura in Messico, ma come la donna che ha sofferto e che ha lottato, che conosce il dolore, che vorrebbe donare il suo amore. Il rovesciamento di campo, se ci si pensa, ha del prodigioso, tenuto conto che la Loren della Ciociara aveva solo ventisei anni e tenuto conto del fatto che il ruolo di Cesira sarebbe dovuto essere di Anna Magnani, rifiutato proprio perché di fare la madre cinematografica di Sofia ad Anna non piaceva. «La parte di Cesira apparteneva a me, e a nessun altro. L’ha detto persino Sofia. Ma il pubblico non avrebbe mai creduto a me come la madre e alla Loren come la mia Rosetta. Il pubblico si sarebbe aspettato che fosse lei a violentare i soldati marocchini, e non il contrario...». Nannarella aveva ragione, ma Ponti che volle il film, Vittorio De Sica che decise per la Loren e Sofia che accettò la sfida, non avevano torto. Perché nella Loren ancora Scicolone c’era stata Pozzuoli, l’infanzia in tempo di guerra, il dopoguerra di chi era cresciuta senza un padre, la fame e la voglia di arrivare, i mille concorsi per emergere, lo squallore delle pensioncine per aspiranti attori, aspiranti miss, aspiranti soubrettes, i divani dei produttori e l’incubo dei divani dei produttori... Conosceva la vita, insomma.
Poi arrivarono anche i figli, ma intanto la Loren era divenuta un’icona dell’italianità, una che parlava l’inglese meglio della lingua madre e fra Parigi, Ginevra, New York Carlo Ponti aveva sempre più perfezionato l’immagine di una coppia che era quasi disincarnata quanto a fisicità (e sì che ce ne voleva, una bellezza imponente lei, un fisico pingue da bon vivant lui) e che riusciva ad evitare scandali e chiacchiere... Si è favoleggiato su un paio di storie di lei, si è ipotizzato su un paio di storie di lui, ma nell’insieme poca cosa: il produttore che all’inizio della sua carriera aveva prodotto un film, La nave delle donne maledette, subito ribattezzato La nave delle donne di Ponti, perché non ne aveva risparmiata nemmeno una, era riuscito nel miracolo di un ménage a due lungo nel tempo, e per di più fertile.


È probabile che quella sera di nove anni fa nel ritirare il Leone d’oro per una carriera cui aveva così tanto contribuito, l’ormai vecchio e fragile Carlo Ponti abbia pensato proprio a questo, l’avercela fatta nonostante tutto, l’aver creduto in un sogno, l’averlo realizzato. E quelle lacrime, oggi che non c’è più, sono il final cut più riuscito di un corsaro che a suo modo era un gentiluomo.

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