da Milano
La voce arriva dietro il paravento che nelle udienze nasconde i pentiti al momento di testimoniare. Dietro il paravento, protetto dai finanzieri del Gico, c'è Tlili Lazhar, tunisino, già spacciatore di droga, diventato mujahedddin, addestrato alla guerra santa nei campi di Al Qaida in Afghanistan. È il primo terrorista a raccontare in prima persona il percorso che porta da Milano ai campi di battaglia della guerra santa. È il primo a puntare il dito contro i vertici della moschea milanese di viale Jenner, e contro il suo imam, l'egiziano Abu Imad. Senza il permesso di Abu Imad, spiega il pentito, non sarebbe stato possibile a nessuno fare propaganda per la jihad all'interno della moschea, trasformando il «centro di cultura islamico» in una base di arruolamento per terroristi.
Le dichiarazioni di Tlili Lazhar erano alla base della retata che all'inizio di giugno portò in carcere un gruppo di otto terroristi, e l'ordine di custodia firmato dal giudice Guido Salvini riportava stralci significativi delle sue dichiarazioni. Ma quattro giorni fa Lazhar è stato convocato davanti alla Corte d'assise di Milano, nel processo ad un gruppo di suoi ex compagni d'arme. E ha fornito nuovi, espliciti dettagli sul ruolo della moschea milanese nel reclutamento dei guerriglieri. Ha raccontato come capi terroristi circolassero indisturbati in viale Jenner di ritorno dai campi di addestramento e rima di partire per questo o quel «fronte». E ha raccontato che proprio le videocassette di propaganda distribuite in viale Jenner erano state alla base della sua conversione alla guerriglia. Alla domanda del pm Elio Ramondini: «Qual è il contenuto delle cassette portate da viale Jenner?», il teste risponde: «Cassette di jihad. Ti dicono: guarda come ammazzano i nostri fratelli, i nostri bambini, le nostre sorelle, allora è dovere di tutti i musulmani fare la jihad». «Dove le prendeva?». «Sicuramente da qualcuno che viene alla moschea perché venerdì facevamo la preghiera lì e si scambiano queste cassette». «Chi comandava all'interno della moschea?». «L'imam. Si chiama Abu Imad, è egiziano». «Cosa vuol dire comandare? Se l'imam non voleva che ci fossero queste videocassette questa persona poteva portarle?». «Se lui non vuole, sicuramente questa gente non può portare le videocassette alla moschea. Lui ha il potere per impedirlo». E qui, per descrivere il controllo totale di Abu Imad e del suo gruppo su quanto accade in viale Jenner, Lazhar fa un esempio: «Una volta qualcuno ha nascosto la droga dove si mettono le scarpe e lui si è incazzato, perché non si fanno queste cose».
E lo stesso vale per la libera circolazione in moschea di personaggi provenienti dai campi di Al Qaida e destinati a ripartire per i teatri di guerra, dove alcuni hanno poi trovato la morte. Lazhar fa il nome di almeno quattro di loro, e cita, tra i frequentatori di viale Jenner, anche un nome che ai giurati della seconda Corte d'assise dice poco, ma che fa sonare campane a distesa negli archivi dell'intelligence: quello di Abu Hashem, «l'ho visto lavorare nella moschea, ha fatto per un paio di mesi il cameriere in cucina». Abu Hashem altri non è che Sassi Lasad, tunisino, un colonnello dei gruppi salafisti che da viale Jenner tornerà poi in patria e resterà ucciso nel dicembre scorso in una battaglia con le forze regolari tenuta segreta dal governo di Tunisi.
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